martedì 26 febbraio 2008

L'uomo nero (terza parte)

Questa volta ci saremmo impegnati eccome. Non potevamo permettere che quel negro ci ridicolizzasse di nuovo. Ovviamente - non credo ci sia nemmeno il bisogno di dirlo - il più risoluto era Dwyght. Non sopportava l'idea che quel negro fosse riuscito a pavoneggiarsi giocando nel suo ruolo davanti al coach. Era un'offesa al suo amor proprio. Nell'ottica tutta personale di Dwyght, il coach Riley era il padre che avrebbe voluto avere. Severo, ma giusto. L'idea che potesse preferirgli un negro era insopportabile. Avrebbe dimostrato al coach che lui era il migliore.

Quando ci schierammo, Dwyght si avvicinò alla linea di scrimmage. Vidi che le sue labbra si muovevano, ma non riuscii a capire cosa dicesse. Ebbi, però, la certezza che si fosse messo d'accordo con gli altri perché gli permettessero di passare senza creargli ostacolo, in modo da facilitargli il placcaggio del negro.


Nell'attesa dello snap, Dwyght si mise a camminare nervosamente su e giù. Sembrava un cane rabbioso rinchiuso dentro un recinto, impegnato alla ricerca di uno spiraglio. E mentre si muoveva non smetteva mai di gridare contro Jeremy. "Ti spacco, sporco negro." "Adesso ti faccio chiamare la mamma, sporco negro." e decine di altre frasi il cui filo conduttore era sempre lo sporco negro. Non potei non cogliere una certa ironia negli insulti di Dwyght. Sporco... detto da lui... il mio compagno non brillava certo per igiene. Era notoria la sua avversione all'acqua delle docce.


"Sbattilo a terra, che così sembrerà uno stronzo di cane sul prato." urlò infine Elmer Cartwright, il nostro defensive back, che in condizioni normali avrebbe dovuto marcare me, se Preston avesse fintato la corsa e fosse andato per il passaggio. Dwyght in sua risposta, assentì con la testa, tenendo però lo sguardo fisso su Jeremy, il quale sembrava non sentire niente, tanto era calmo e rilassato. Era da ammirare tanto controllo. Sembrava, anzi, che la situazione lo divertisse, dalla piega che aveva la sua bocca.


Al momento dello snap con cui fu messa in gioco la palla, la nostra linea offensiva si aprì davanti a Dwyght come il Mar Rosso davanti a Mosè. Preston, vedendosi arrivare il pallone insieme a Dwyght abortì il gioco di corsa e si curò di proteggere il pallone, preparandosi al placcaggio, ma il nostro linebacker, contro ogni legge del gioco, si disinteressò del quarterback e del pallone, dirigendosi senza esitazione contro lo sporco negro. Danny, che in teoria avrebbe dovuto usare il suo corpo per difendere il suddetto sporco negro e facilitargli la corsa, rimase fermo. Come il resto della linea offensiva approvava la risoluzione Dwyght: il negro doveva essere spaccato.


Dwyght fece un balzo in avanti lanciandosi contro il suo obiettivo. Jeremy non provò alcuna finta per evitare il colpo, si limitò a fare un semplice passo a sinistra. La foga di Dwyght era troppa e non riuscì a fermare il suo slancio finendo lungo disteso per terra sul punto in cui un attimo prima c'era il suo bersaglio.


Fu a quel punto che sentimmo per la prima volta la voce di Jeremy. Era cavernosa con uno strano accento. "Gimmy da boll" urlò a Preston e lui istintivamente gliela passò con sottomano. Jeremy partì come un treno nella mia direzione, mentre Dwyght si rialzava urlando rabbioso. Jeremy mi passò vicino. Io ero il giocatore più veloce della squadra senza alcun dubbio, ma mi bastò vedere quella scheggia nera passarmi accanto per capire che in quel momento ero il secondo più veloce sul campo. Aveva una fluidità di movimenti e una rapidità nei passi da togliere il fiato.


In difesa, aspettandosi tutti il placcaggio di Dwyght, nessuno si era mosso e gli altri linebackers quando avevano capito cosa stava succedendo erano già belli che superati. L'unico ostacolo tra Jeremy e la segnatura era Elmer Cartwright, che poi non era 'sto gran ostacolo. Elmer era disperso nel campo solo soletto e non poteva certo coprirlo tutto, anche perché essendo lui fermo e Jeremy in corsa, se quest'ultimo avesse voluto avrebbe potuto arrivare a segnare senza nemmeno essere avvicinato da Elmer. Gli sarebbe bastato tagliare a sinistra. Jeremy, invece, puntò Elmer. Voleva lo scontro. Probabilmente aveva registrato la frase rivolta da Elmer a Dwyght prima dello snap.


Elmer puntellò i piedi nel terreno conficcando i chiodi in profondità nell'erba. Si piegò sulle ginocchia e attese l'urto. Jeremy avrebbe potuto ancora evitarlo. Elmer ormai volente o nolente non si sarebbe mai potuto spostare. Invece Jeremy proseguì la sua corsa, abbassò la testa e passò oltre come se avesse sfondato una ragnatela. Elmer in un amen si ritrovò lungo dritto sul terreno come un enorme zerbino ben calpestato, per non dire che era uguale a uno stronzo di cane sul prato. Sotto i tacchetti delle sue scarpe erano rimaste incastrate due belle zolle di terreno misura nove e mezzo.


Dopo aver segnato per la seconda volta nel giro di dieci minuti, Jeremy si voltò guardò nella nostra direzione e con una spallata potente e precisa lanciò il pallone alla volta di Preston. Cinquanta yards di passaggio preciso al millimetro. Preston lo prese senza nemmeno muoversi. Solo a quel punto Jeremy si regalò un moto di esultanza e si mise a sorridere divertito. Aveva una dentatura incredibilmente bianca e regolare, una cosa difficile da veder in bocca a un bianco dalle nostre parti, figurarsi in bocca a un nero. Comunque, dentatura o non dentatura, aveva tutte le ragioni del mondo per sorridere. Aveva battuto da solo la squadra vincitrice del campionato statale tra i licei riservati ai bianchi. Si era dimostrato un difensore più abile del nostro miglior difensore, un running back più agile del nostro titolare, più veloce di me e con un braccio migliore di quello di Preston. Non ci aveva battuto, ci aveva ridicolizzati.


Dwyght se ne rese conto e impazzì letteralmente iniziando a correre come un pazzo in direzione di Jeremy con il chiaro intento di prenderlo a pugni. Jeremy non si mosse.


Prima però che la situazione potesse degenerare entrò in campo coach Riley. Il suono del fischietto bloccò Dwyght sulla linea delle venti yards.


"Signorine, piantatela di rendervi ridicole più di quanto non abbiate fatto. Non eravate voi a dire nemmeno un'ora fa di essere i migliori di tutti? Bene, adesso che avete visto un vero giocatore di football all'opera, siete ancora convinti di essere i migliori? Non me ne frega un cazzo che Jeremy sia negro o giallo o verde. E non dovrebbe fregarvene niente nemmeno a voi, perchè sul campo gli unici colori che contano sono quelli della vostra squadra e gli unici colori che dovete odiare sono quelli degli avversari. Ma non sono qui per farvi un discorso sui diritti civili. Io sono qui per fare di voi dei giocatori di football e da quel che ho visto oggi, ho fallito miseramente. Prima che voi “campioni” possiate solo ipotizzare che gli allenamenti a voi non servono, dovrete almeno giocare al livello di Jeremy. Adesso tutti fuori dal campo. Andate a farvi la doccia. Oggi è un giorno che non c'è stato. Domani sarà il primo giorno di preparazione della stagione e vi voglio vedere faticare come mai vi ho visto fare. In caso contrario io mi dimetterò da allenatore e vediamo se voi siete tanto bravi da vincere da soli."

Detto questo si avvicinò a Jeremy, gli fece i complimenti per la prestazione e se ne andò via con lui.


Per l'ennesima volta nell'arco di quel giorno non sapevamo cosa fare, meno male che c'era il vice allenatore Thomas.

"Non avete sentito? Brutti bifolchi incapaci, andate subito alle docce e in fretta."


E fu così che andammo negli spogliatoi. Eravamo incazzati con Jeremy, con il coach, ma soprattutto con noi stessi. Mentre mi toglievo le protezioni, giurai a me stesso che non le avrei mai più indossate. Avevo chiuso con il football. Quanto avevo visto mi aveva aperto gli occhi. Non avevo abbastanza talento per giocare. Mentre mi lavavo però mi ero già rimangiato tutto. Io adoravo giocare e se quel ragazzo nero poteva essere più veloce di me, io avevo altre caratteristiche e sarei migliorato ancora. Mi sarei allenato sarei diventato più forte, più veloce e avrei corso meglio le tracce. Non mi sarei arreso solo perché uno era più veloce di me.


Uscito dalla doccia mi avvicinai a Preston.

"Stasera ti va se mi fai qualche lancio dietro casa?"

“Ti stavo per proporre la stessa cosa.”


Per tornare a casa dovevamo attraversare il campo e lì trovammo Jeremy ancora vestito per giocare. Aveva fatto finta di andare a cambiarsi e poi era tornato in campo e adesso stava provando placcaggi su placcaggi sul sacco di allenamento posizionato appena fuori dal terreno di gioco. Non provammo a parlargli. Non era difficile capire come si stava sentendo. Continuare a colpire fino allo sfinimento quel povero sacco era il suo modo per scusarsi con il coach per aver dato il via a quella terribile giornata con le sue battute durante la corsa di riscaldamento.


Arrivato a casa non dissi niente ai miei genitori. Risposi a monosillabi a tutte le domande che mi venivano rivolte. Nove volte su dieci mentivo. Ti sei divertito? Sì. Coach Riley vi ha fatto faticare come al solito? Sì. Qualcuno tra le matricole si è messo in luce? No. Nessuna faccia nuova, allora? NO, nessuno di nuovo.


Appena mi fu possibile andai in camera. Quella notte non dormii molto. Continuavo a pensare a cosa era successo quel giorno e a come evitare che si potesse ripetere. E l'unica risposta era spaccarsi il culo. A giudicare dal fatto che il giorno successivo tutta la squadra, nessuno escluso, si presentò all'allenamento mezz'ora prima dell'ora stabilita, non fui l'unico a passare la notte in quel modo.


Peccato che quel giorno non per nostra volontà, l'allenamento non si tenne.


Non si sa come, la notizia dell'ingresso di un negro agli allenamenti era arrivata al preside, il quale aveva immediatamente convocato l'allenatore Riley. Fosse stata confermata quella voce, l'avrebbe licenziato su due piedi, titolo o non titolo. Le direttive del governatore e del KKK erano chiarissime: nessuna integrazione, nessuna eccezione. I negri dovevano rimanere al loro posto. Chi trasgrediva ne avrebbe subito le conseguenza.


La risposta all'interrogatorio del preside da parte del coach fu semplice.


“Io in campo ho portato un giocatore di football. Sinceramente non mi ricordo il suo colore.”


Il preside non apprezzò. E quando si sentì ripetere le stesse parole dal vice allenatore Thomas si incazzò proprio. Decise quindi di chiamare anche noi. Fummo sentiti tutti e tutti confermammo la versione dell'allenatore. Non perché fossimo liberali fautori dell'integrazione. Come detto, la maggior parte di noi si sarebbe iscritta da lì a poco alla fratellanza bianca, se non era già iscritta, ma ne avevamo discusso e la conclusione era solo una: l'allenatore ha sempre ragione e il preside non conta un cazzo su un campo da football. La sua autorità finisce dove inizia l'erba. Quindi non erano affari suoi cosa era successo il giorno prima. Noi eravamo stati stupidi e l'allenatore ci aveva dato una lezione. Discorso finito. Oltretutto a convincere gli ultimi dubbiosi ci aveva pensato Dwyght: “A chi parla, gli spacco le gambe.” Nessuno parlò e il preside si ficcò la sua crociata bianca dove non batte il sole.


Chiusa questa stupida parentesi, il resto della preparazione fu uno spettacolo di abnegazione. Eravamo invasati. Volevamo dimostrare all'allenatore che eravamo meglio di Jeremy. Ci allenammo come non mai, in silenzio, senza mai discutere gli ordini del coach. Anzi, su nostra stessa richiesta gli allenamenti raddoppiarono. Ogni momento libero era dedicato al football. Niente più Jamie Lee, niente più alcol e sigarette, solo football. Ce ne nutrimmo per mesi e i risultati si videro. Vernon a fine stagione faceva novantasette flessioni di fila, una per ogni suo chilo, senza nemmeno sudare. Preston registrò il record di yards passate, completi e passaggi per touch down. Io corsi come non mai e stabilii il record scolastico di ritorni in end zone con cinque, nonché tutti i record scolastici per passaggi ricevuti. E non dimentichiamo Dwyght. Trascorse il campionato a buttare a terra tutto quello che gli arrivava vicino. Non sbagliò un singolo placcaggio e mandò tre quarterback avversari in ospedale; degli altri ruoli manco parlo. Era peggio di un bombardamento a tappeto da quanti feriti si lasciò dietro sul campo. A ogni placcaggio la frase era sempre la medesima: "Fidati, sei più scarso di un negro." Il risultato fu una stagione trionfale, vincemmo tutte le partite e anche senza voler umiliare gli avversari i punteggi furono imbarazzanti. In finale incontrammo ancora la Abraham Lee High School e questa volta non vincemmo di tre con un calcio allo scadere, vincemmo di trenta. Lo Stonewall era diventato un gruviera. A campionato concluso i quattro giocatori appena nominati, compreso il sottoscritto, vinsero borse di studio in varie università. Nessuna squadra della scuola aveva mai avuto tanti giocatori selezionati e nessuna mai ne ha avuti altrettanti dopo. Però, nonostante tanti e tali record e per quanto ci osannassero in paese, questa volta neppure uno di noi pensò anche solo per un attimo di essere il migliore. La lezione l'avevamo imparata.”


A questo punto il mio vecchio coach dei tempi di New York si fermava nella sua narrazione, attendendo che qualcuno alzasse la mano e chiedesse di Jeremy. Non era mai un'attesa lunga.


“Non c'è mai stato nessun Jeremy o almeno, se c'era, non era certo il magnifico giocatore sceso in campo contro di noi. Il nostro allenatore ci aveva preso in giro organizzando il tutto al solo scopo di darci una sonora lezione per punirci della nostra prosopopea. Jeremy, vero nome Sideny Virgil Tibbs, non aveva mai frequentato il liceo di Welby e non era nemmeno uno studente di liceo. Era un universitario di ben tre anni più vecchio del più vecchio di noi e giocava per la squadra del suo ateneo nel ruolo di corner back.


E non era nemmeno dell'Alabama. Era sempre vissuto in California, dove i suoi genitori, nativi del nostro stato si erano trasferiti (fuggiti) prima della sua nascita.


Era tornato qui a far visita a una sua vecchia zia; zia che per pura coincidenza era la ex governante di coach Riley. Non era però venuto qui per il suo spiccato senso della famiglia. Negli anni cinquanta se eri un negro che viveva in California, dovevi avere una ragione speciale per voler andare in un posto dove i cani potevano entrare nei ristoranti riservati ai bianchi, ma un nero no. Questa ragione risiedeva nella vera passione di Sidney che, incredibile a dirsi non era il football, ma il diritto. Sidney, infatti, studiava giurisprudenza ed era nel contempo un attivista per i pari diritti tra afroamericani e bianchi. Per questo era voluto andare nella terra dei suoi genitori. Voleva rendersi conto di persona di quale fosse la condizione degli afroamericani negli stati del sud e non limitarsi a quanto riportato in giornali o da terze persone.


La realtà si era rivelata ben peggiore di ogni sua immaginazione, ma aveva anche scoperto che non tutti i bianchi erano uguali. Il coach Riley, ad esempio, era uno di queste eccezioni. Trattava sua zia come una di famiglia, alla pari. Ormai non era più una governante. I reumatismi le impedivano la maggior parte dei movimenti e, quindi, era diventata un membro della famiglia. La zia viveva nella loro casa e mangiava con loro allo stesso tavolo. Nessuna discriminazione.


Come quell'attivista, appena giunto in paese fosse arrivato sul nostro campo vestito in quella maniera ridicola, si trovava nella mente contorta del nostro coach.


Vedendoci svogliati e supponenti quel fatidico 8 agosto, Coach Riley aveva pensato all'atletico nipote della sua governante. Era arrivato da poco, in paese non l'aveva visto nessuno. Per non creare problemi alla zia, Sidney si muoveva nelle altre contee. Coach Riley con occhio esperto l'aveva già inquadrato e sapeva che anche grazie alla differenza di età, ci avrebbe potuto dare una bella lezione. Inoltre, era sicuro che noi ci saremmo bevuti la storia del giocatore del liceo. Eravamo troppo stupiti di vedere un negro in campo per preoccuparci della sua età e, oltretutto, diciamolo, per noi i negri erano tutti uguali.


Era quindi corso a casa e aveva illustrato la sua idea ad Sidney, precisando che se avesse accettato si sarebbe dovuto sorbire una montagna di insulti, oltre a correre più di un rischio per la sua incolumità fisica.


Sidney aveva accettato per una molteplicità di ragioni: avrebbe avuto ciò per cui era andato in Alabama, essere trattato come un negro, avrebbe infranto quella ridicola regola dei campi da football riservati ai bianchi e nel contempo avrebbe dimostrato quale era la razza migliore e non pensava certo a quella pallida.


Improvvisarono l'abbigliamento con vestiti vecchi dello zio di Sidney per il casco, si era ricorso a quello usato dal coach Riley quando giocava. Ovvio che ci fosse sembrato datato e fuori misura sulla testa di Sidney. Il ragazzo dava quindici centimetri al nostro vecchio coach.


Cosa successe dopo già lo sapete.


Preston ed io scoprimmo cosa era successo veramente, quando spinti dalla curiosità e dalla voglia di misurarci con nuove sfide, bruciammo un giorno di scuola per recarci a Welby a vedere gli allenamenti della loro squadra di football. Fu una vera delusione. Non erano forti come li avevamo immaginati. Avevano alcuni ottimi giocatori, ma peccavano in organizzazione e nel complesso non credo avrebbero potuto infastidire la nostra squadra. Di Jeremy, poi, nessuna traccia. Quando trovammo il coraggio di farci vedere e chiedemmo di lui, con nostro stupore ci risposero che non c'era nessun Jeremy in squadra. Lo descrivemmo e loro si misero a ridere.


“Ma quello mica gioca con noi. È un universitario californiano. È venuto a dare un'occhiata alla scuola insieme a un bianco come voi, un tipo basso con l'aria severa (coach Riley pensammo Preston ed io). Quello che cercate ha giocato anche un po' con noi. Accidenti, mai visto nulla del genere. Era fortissimo.”


Da quel punto in poi scoprire il resto non fu difficile. Sapevamo del nipote californiano della ex governante del coach, perché lei se ne vantava sempre con tutti. E quando il padre di Preston ci disse di averlo anche incontrato durante l'agosto precedente, ci fu chiaro il reale svolgimento dei fatti. Tuttavia non dicemmo niente ai nostri compagni. Il mito dello sconosciuto Jeremy era un motivatore assai più efficace della storia di Sidney Tibbs.


Con questo credo di avervi detto tutto, aggiungo solo una notizia a mero titolo informativo. Qualche anno dopo appresi dalla zia di Sidney che il suo nipotino aveva abbandonato il football per dedicarsi completamente alla professione forense, diventando un rinomato avvocato specializzato nelle cause aventi ad oggetto la tutela dei diritti civili degli afroamericani.


Concludo ripetendo le parole che il mio vecchio coach disse quando il 10 agosto ricominciammo gli allenamenti dopo tutto quel trambusto messo su dal preside: “A me non frega un cazzo di chi è il migliore e ora mettetevi a correre, che a parlare si perde solo tempo.”


Ho sempre adorato questa storia. Ha la capacità di rabbonirmi. Il concerto degli AC/DC non era ancora terminato, ma potevo anche spegnere l'i-pod. La cazzata successa al bar era ormai acqua passata. Mi sbagliavo. Quando aprii gli occhi mi ritrovai davanti il mio collega, quello che non capisce niente, ma ha una bella dentatura e agganci ancora migliori. Mi stava dicendo qualcosa e da come si agitava non sembrava niente di educato. Mi tolsi le cuffie.


“Cosa c'è?”


“Come ti sei permesso di insultare mio figlio?” disse indicando fuori dal mio ufficio. Dietro il muro a vetri vidi il cerebroleso che avevo gentilmente ripreso al bar poco prima.


“È tuo figlio? Accidenti mi spiace, se avessi saputo che era affetto da tare genetiche non l'avrei mai redarguito. Non me la prendo coi disabili. Vagli a dire che mi dispiace e adesso scusami che stavo occupandomi di affari importantissimi.”


Detto questo mi son rimesso le cuffie. Lui iniziò a dire qualcosa, ma io non lo sentivo, Angus Young stava eruttando l'assolo durante for those about the rock. Fulminai il collega con uno sguardo amichevole. Mi alzai con calma, salutai il figlio geneticamente avariato con un ampio sorriso e un moto del capo a mo' di scusa e poi sussurrai qualcosa al padre.


“Accontentati del fatto che mi sono scusato. Non tirare la corda, perché se no tuo figlio vedrà il suo grande papà finire per terra. Non sono il miglior pugile di tutti i tempi, ma sono certo di riuscire a romperti un paio di denti.”


Uscì in un attimo. Io tornai a sedermi presi l'ultima ciambella rimasta e rimisi le cuffie. Il live degli AC/DC era terminato, insieme al mio malumore. Tutto sorridente decisi di passare alla radiocronaca registrata dell'ultimo Super Bowl, l'ennesima dimostrazione che i migliori di tutti i tempi non esistono.

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