domenica 24 febbraio 2008

L'uomo nero (prima parte)

Stamattina ero al bar sotto alla stazione televisiva, un locale tranquillo, costellato di acciaio lucido e fotografie di gente famosa. C'è persino una mia foto. Inizialmente era collocata vicino al bagno subito sotto a una di Mike Smrek, un panchinaro dei Lakers così sconosciuto che avevano pure dovuto aggiungere una targhetta per dire chi fosse. Dopo, a furia di frequentare il bar per spuntini, pranzi, cene e beveraggi abbondanti, il tutto accompagnato da ottime mance, ero stato spostato sopra al bancone. Non proprio in centro, perché quello era il posto riservato a Magic e Letterman, ma nemmeno in periferia.


Ero, dunque, intento a sorseggiarmi l'ennesimo caffè della giornata e ad addentare una bella ciambella annegata nella cioccolata. Mi stavo godendo la vita, insomma. A coronamento di tutto, il televisore a cristalli liquidi, posizionato sopra l'angolo sinistro del bancone, trasmetteva una mia intervista a Shawne Merriman, il linebacker dei San Diego Chargers. Incredibile a dirsi, dalle immagini sembravo interessato alle banalità dette in risposta alle mie domande. Il giorno in cui sarà detto qualcosa di veramente intelligente in televisione inizierò a guardare il calcio. Lo giuro. Nel complesso, però, l'intervista era andata bene. Merriman era riuscito ad esprimere al mondo il suo sincero attaccamento alla squadra e la sua volontà di sacrificarsi per il bene dei Chargers, evitando qualsiasi atteggiamento da primadonna. Il discorsetto standard del giocatore che ha appena rinnovato il contratto a cifre spropositatamente alte. La stessa intervista fatta un anno fa, si sarebbe risolta in un monologo sulle sue enormi capacità fisiche, le sue innate doti tecniche, su quanto fosse bravo e fondamentale nell'alchimia della squadra, sottintendendo, perché si fa capire, ma non si dice, che senza di lui i San Diego Chargers avrebbero fatto schifo e che quindi la dirigenza, se non era stupida, doveva offrirgli un contratto a cifre spropositatamente alte; contratto che lui con generosità si sarebbe degnato di accettare.


Per quanto mi riguarda, ero parso professionale e questo mi bastava. Decisi anche di acquistare un regalo per la mia truccatrice, Jessica, guardando il mio bel faccione sorridere all'ennesima idiozia del mio collega. Da quel che mi han detto i miei amici religiosi, i miracoli li fanno i puri di cuore. Per mia esperienza diretta Jessica non era molto pura, ma certo i miracoli li sapeva compiere. Ieri notte ero rotolato giù dal divano insieme a una bottiglia di Jack e al mio risveglio avevo l'aspetto di toro; appena finita la corrida. Sullo schermo, invece, sembravo appena tornato da una vacanza ai Caraibi.


Come detto l'intervista era andata bene, il mio collega, il quale di football ne capisce quanto io di uncinetto, non l'avrei rivisto per un'altra settimana e la seconda ciambella era più cioccolatosa della prima.


Non potevo sentirmi meglio. Poi arrivò l'idiozia e tutto fu rovinato.


Sono stufo di impegnarmi per nulla, lottare giorno dopo giorno per cambiare le cose e vedere ogni mio sforzo vanificato dall'imbecillità altrui. Mi domando perché mi do tanta pena. L'ignoranza e la stupidità permeano questo mondo e nessuno può sconfiggerle, certo non io.


“Merriman è il miglior linebacker di tutti i tempi.” Ma si può?


Puntualizzo subito a scanso di equivoci che questa non è un'opinione. Tra questa cazzata e un'opinione passa la stessa differenza che corre tra il mio culo e quello di Halle Berry.


Sebbene fossi di spalle rispetto all'anonimo autore della suddetta cazzata, l'avrei potuto descrivere senza bisogno di voltarmi. Il tipo era sempre lo stesso: un ragazzino appena entrato nella pubertà senza alcuna esperienza di football giocato e appassionatosi solo di recente al mio adoratissimo sport. Dato il nome del migliore da lui scelto, questo qui era pure del modello “salto sul carro dei vincitori.” Il peggiore di tutti. L'esponente classico di questa categoria sceglie immancabilmente la sua squadra tra quelle che negli ultimi cinque anni hanno vinto un Super Bowl o almeno un paio di titoli divisionali, e per lui il migliore di tutti i tempi, cascasse il mondo, è un giocatore di quella squadra. Se va in un'altra, certo come che ho un ginocchio fuori uso, il giocatore diventerà improvvisamente un brocco, indipendente dai suoi risultati. Non c'è scampo. Ulteriori, ma non esaustive, peculiarità di questo esecrabile essere umano: cambia idea sulla propria squadra a ogni partita disputata (se vince fortissima, se perde è tutto da cambiare); se arrivano due sconfitte di fila si disinteressa dei suoi ex beniamini salvo dopo due vittorie consecutive dire: “Sapevo si sarebbero ripresi anche se tutti li davano per finiti.”; infine, la sua stagione sul divano dura 16 partite solo se si arriva ai PO, se no guardano il basket.


Anche le squadre perdenti annoverano tra le loro fila di tifosi una pletora di decerebrati orgogliosi di millantare la loro conoscenza del football sputando sentenze sui migliori di tutti i tempi. Però, sono numericamente inferiori, non essendoci quelli che saltano sul carro dei vincitori, perchè il carro non c'è. Per gli stupidi incompetenti appartenenti a questa categoria, il migliore è sempre uno della loro franchigia, ma un giocatore del passato che spesso non hanno visto giocare se non in filmati d'epoca, quando esistono filmati di quell'epoca.


Se qualcuno si identificasse con le descrizioni appena compiute e si sentisse offeso, sappia che mi offendo di più io per la sua esistenza e, quindi, si tolga dalle palle.


Torno a rivolgermi a persone senzienti.


Partiamo da un dato certo e incontestabile: non esiste il migliore di tutti i tempi. Non date retta alle classifiche fatte proprio per quei tifosi ignoranti di cui sopra. Il vero tifoso sa che il gioco è cambiato negli anni, che gli aiuti ai giocatori sono cambiati, che i compagni, gli schemi e la fortuna, leggasi infortuni, decidono una carriera più del talento e della volontà e che non ci si può lasciare impressionare dall'ultima stagione a cui si è assistito, ma soprattutto sa che per tutte queste ragioni non esiste un criterio valido per paragonare giocatori di diverse epoche. Il giudizio è troppo soggettivo per avere una effettiva valenza. Non si riesce manco a decidere il migliore tra Brady e Manning, pensa te individuare il top dei top. E poi il minimo per sentirsi autorizzati a fare una classifica è aver visto giocare tutti i papabili e, a mia conoscenza, nessuno ha vissuto abbastanza. Infine, non si sa chi arriverà domani. Quindi, per un minimo di decenza si dovrebbe avere almeno il ritegno di dire: il migliore che ho avuto la fortuna di vedere, o almeno il migliore fino a oggi. Ma non è mai così. Si tratta sempre e solo del migliore di tutti i tempi. Ma tu che ne sai? Chi ti dice che un giocatore che non hai visto, o addirittura che non ha mai calcato il campo da professionista, non fosse migliore di quello che tu indichi?


Avrei dovuto accettare con gli anni che avendo il football così tanti appassionati qualche imbecille ci deve pur essere. Ma no, io sono testardo, spero sempre che a furia di parlarne la gente capisca. E poi: “Merriman è il migliore di tutti i tempi.” Come fa uno a non incazzarsi? Manco avesse detto Lawrence Taylor o Ted Hendricks, no, Merriman: l'ultimo arrivato.


La mia giornata era completamente rovinata.


Mi voltai, magari mi ero sbagliato e ad aver pronunciato quella spettacolare minchiata era stato Mike Ditka o Bill Belichick. E invece come al solito l'immenso conoscitore della psiche umana noto al mondo come Alvin Santisky aveva visto giusto: il cazzaro era proprio un ragazzino, il cui aspetto complessivo avvalorava fin nei più piccoli particolari quanto mi ero immaginato. Era in compagnia di un suo coetaneo a un tavolino vicino all'ingresso del locale. L'idiota parlava, meglio dire farneticava, e l'altro assentiva, il che la diceva lunga pure sulla sua di intelligenza. Non avevano più di quattordici anni. Notai che entrambi avevano un pass per entrare nella stazione televisiva. Il figlioletto che era andato a vedere dove lavorava il padre con un suo amico. Mi avvicinai all'idiota e gli rivolsi un tenero e affettuoso rimprovero.


“Sentimi, piccolo coglioncello, di football non ne capisci proprio un cazzo, quindi fa un favore a tutti e torna a depauperarti cerebralmente davanti alla Playstation perché mi sembra l'unica cosa che ti riesce bene.”


L'aver espresso pubblicamente una semplice e banale constatazione non mi fece sentire granché meglio. Andai al bancone, pagai il conto, in cui infilai altre quattro ciambelle al cioccolato e con esse tornai su nel mio ufficio. Appena arrivato, lì mi sedetti. Posizionai la scatola con le ciambelle nel mezzo della mia scrivania. Tirai fuori dal cassetto l'i-pod e selezionai il concerto degli ACDC del 1992 a Donington. Ciambella in mano, chiusi gli occhi e cercai conforto di fronte alla faciloneria di questo mondo nei ricordi. Non si trattava, però, dei miei ricordi: avevo preso in prestito quelli del mio vecchio allenatore del liceo, Jonathan Parker. Un prodotto del profondo sud che durante negli anni cinquanta aveva giocato qualche stagione con i Chicago Bears di George “Papa Bear” Halas, per poi finire a New York a fare l'allenatore al liceo, dove poi sarei andato io. Rimane una figura centrale della mia vita. Fu lui ad aiutarmi a convincere mio padre a permettermi di andare a UCLA, facendogli capire che suo figlio non sarebbe mai stato l'avvocato/medico/professore universitario che il professor Santisky aveva sognato. E quando avevo qualche problema a UCLA e anche da professionista chiamavo sempre lui e mio fratello. Mai mio padre. È ancora vivo, il vecchio coach. Ovviamente è in pensione con i suoi quasi 80 anni. Però, acciacchi a parte, la testa è ancora in gran forma e ogni tanto lo chiamo ancora per una chiacchierata. Eppure, dopo oltre trent'anni di conoscenza, ormai consolidatasi in amicizia, per me rimane sempre e solo il coach.


Quando ancora allenava, il coach, il giorno in cui si aprivano gli allenamenti, chiamava tutti i giocatori negli spogliatoi e raccontava loro una storia. Sempre la stessa. Un fatto realmente accaduto, di cui non andava fiero, ma è la mia storia preferita ed ha il potere di riconciliarmi con il mondo dopo aver sentito certe sanguinose cazzate.

4 commenti:

azazel ha detto...

ho letto il tutto in anteprima e mi è piaciuto!! il "romanziere" (cit.) ha fatto una bella cosa ;)

riguardo a questa prima parte del racconto, direi che il protagonista è sull' orlo di una crisi di nervi: il fatto che schizzi a quel modo per una frase del poppante me lo rende simpatico: nevrosi unica via.

angyair ha detto...

Finalmente ritorno a leggere Alvin, incazzoso e arrogante come sempre.

Teolandia ha detto...

Merriman è un outside linebacker :D

Sempre piacevoli i racconti di Santinsky, oltretutto è un Bruins :D

Alvix ha detto...

Errore del traduttore :fischia: