domenica 24 febbraio 2008

L'uomo nero (seconda parte)

Era l'otto agosto del 1948. Il primo giorno di preparazione. L'anno prima avevamo vinto il campionato scolastico battendo in finale la Abraham Lincoln High School. Nome mai utilizzato nella storia della scuola subito chiamata ufficiosamente e da tutti Robert Edward Lee High School. Che in Alabama il nome dell'amico dei negri mica si può usare. Ma il generale Lee a noi non interessava, il nostro problema era Stonewall, come avevamo ribattezzato la loro impenetrabile difesa (gioco di parole introducibile: stonewall significa muro di pietra, ma con tale nome era indicato anche un tenente generale dell'esercito confederato agli ordini del lo stesso generale Lee: Thomas Jonathan Jackson, n.d.tr.).


Solo un calcio sul finale ci aveva dato il vantaggio decisivo in una partita combattutissima terminata senza touchdowns con il miserando punteggio di nove a sei.


Nonostante il risultato striminzito e un match di trincea, nel complesso dominato dalle difese e dagli errori, quella vittoria ci aveva trasformato in degli eroi. L'unico motivo di vanto per quelle quattro case in croce di cui era composto il nostro paese. Era la prima volta che si vinceva qualcosa ed era la prima volta che la contea di Bloomfield finiva sul giornale di Montgomery, per qualcosa che non era un linciaggio di qualche nero. Le conseguenze furono immediate. Essere membri della squadra di football ci rese dei privilegiati. I voti a scuola salirono per tutti, persino quelli di Dwyght Schmidt, il nostro middle linebacker, un ragazzo che giocava per fare agli avversari ciò che suo padre faceva a lui. Sapeva a mala pena scrivere il suo nome, sbagliandolo peraltro tre volte su quattro. Ma nella finale di campionato aveva dominato in lungo e in largo, provocando anche il fumble decisivo che ci aveva permesso il drive del calcio del nove a sei. Per tale nobile ragione il Professor Carter aveva iniziato a dargli sei quando sbagliava il nome e sette quando lo scriveva giusto. I voti scolastici erano importanti, ma da bravi adolescenti gli ormoni lo erano pure di più. E qui veniva il meglio. Le ragazze si misero a guardarci in maniera diversa e molte, per nostra fortuna, non si limitavano a guardare.


Bianchi, belli e vincenti. Eravamo il massimo che si potesse ottenere a Bloomfield.


Qualcuno, anzi, molti ci vedevano già in qualche università e persino tra i professionisti, perché sia noi che i nostri concittadini eravamo certi di ripeterci.


La nostra squadra non aveva perso pezzi importanti alla fine dell'anno. L'ossatura era immutata. Io come ricevitore e ritornatore, Dwyght come capo della difesa, Preston Turges quarterback e Samuel Cody Fellis come running back eravamo all'ultimo anno. La linea offensiva e quella difensiva erano praticamente le stesse. Sì, avremmo vinto di sicuro, ce lo dicevano tutti e fu per quello che il primo giorno di allenamento arrivammo assolutamente fuori forma, stanchi e svogliati. Che ci serviva allenarci? Tanto avremmo vinto lo stesso, eravamo o non eravamo i campioni in carica? I migliori?


Quanto fossimo messi male si vide dopo nemmeno cinque minuti di corsa di riscaldamento attorno al campo. Metà del gruppo arrancava. I soliti davanti, ma nessuno che veramente si impegnasse. Scherzavamo e parlavamo tenendo la velocità minima indispensabile, intenti com'eravamo ad ascoltare Preston raccontarci di come erano sode le tette di Jamie Lee.


L'allenatore Riley urlò di smetterla di blaterare e iniziare a muovere il culo, se no ci pensava lui a farci muovere a calci. Come al solito Dwyght non riuscì a stare zitto. Questa sua abilità gli aveva regalato più giri di campo punitivi di chiunque altro nella storia della scuola. Ma proprio non gli riusciva di cucirsi la bocca.


"Coach, va bene così. Se ci stanchiamo troppo mica riusciremo a festeggiare bene la vittoria del prossimo campionato." e detto questo si fermò urlando a tutti: "Ho ragione o no?"


Quindici, i più vecchi e i più intelligenti, continuarono a correre, il resto si fermò e si mise ad applaudire Dwyght, urlando scempiaggini del tipo siamo i migliori, nessuno ci può battere e cazzate varie. Noi quindici ci mettemmo a guardare l'allenatore, certi che adesso avrebbe fatto una scenata di quelle da leggenda. Io pensai addirittura che avrebbe messo le mani addosso ad alcuni ragazzi. Non aveva mai accettato comportamenti del genere durante la preparazione. Durante gli allenamenti si sudava, si sputava, si ansimava, non si parlava, non si scherzava e, soprattutto, non si festeggiava. Di fronte a quella collettiva trasgressione delle sue regole, il coach non disse nulla, nulla di nulla, mentre i ragazzi continuavano a cantare. Normalmente avrebbe urlato come un faro antinebbia e invece si limitava ad osservare in silenzio. Quel comportamento, così anomalo e inconsueto, era spaventoso. Ebbi la chiara sensazione di un imminente catastrofe, del tipo metà squadra sospesa, ma nulla mi fece presagire quanto successe di lì a poco. Il coach si girò, andò dal vice allenatore Thomas e gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Quindi si allontanò.


Quando i miei compagni se ne accorsero, smisero di fare casino e alla buon'ora si zittirono.


Ci guardammo, disorientati e confusi. Non era mai successo nulla del genere. Non sapevamo come comportarci. Ognuno si rivolgeva al compagno più vicino chiedendosi cosa stesse succedendo. Non lo so. Se ne è andato. Ma dove è andato? Ma che gli è preso? Secondo te torna?


“SILENZIO!” urlò il vice allenatore Thomas. “Adesso sedetevi tutti in mezzo al campo. Il primo che parla si fa dieci flessioni. Il secondo venti e così via.”


Il brusio scomparve in un battito di ciglia. Sotto un certo profilo eravamo quasi felici di quella ramanzina. Era un bagno di normalità. Gli allenatori urlavano e noi obbedivamo. Queste erano le regole da che mondo è mondo. Non silenzi prolungati e voltarsi e andare via.


Cinquanta minuti dopo, eravamo tutti intenti a osservare Vernon Cardwell, il nostro right tackle perennemente sovrappeso, impegnato a tirarsi su per la ventiquattresima flessione non consecutiva. Gliene mancavano altre trentasei per portare a termine la punizione inflittagli per aver detto al vice allenatore Thomas che voleva andare in bagno. Da come sbuffava, difficilmente Vernon sarebbe sopravvissuto ad altre tre flessioni. Facciamo due.


“Ok ragazzi, smettiamola di giocare. Tutti in piedi.” Vernon Cardwell avesse avuto fiato avrebbe obiettato che non gli sembrava poi 'sto gran gioco. Non avendo fiato, si limitò a stramazzare al suolo.


Nessuno si occupò di lui. Il nostro allenatore era tornato. Ma per quanto l'avessimo atteso come gli ebrei il messia, non ci occupammo nemmeno di lui. Tutti eravamo ipnotizzati dal ragazzo che si era portato dietro. Non l'avevamo mai visto al campo e come poteva essere altrimenti? Eravamo in Alabama. Fino al 1954 i negri, neri sulle leggi federali, ma negri nel nostro stato, non potevano entrare nelle scuole dei bianchi e c'era voluta la guardia nazionale perchè succedesse. Per avere un negro nella squadra dell'università dell'Alabama si dovette aspettare fino al 1970. Il razzismo era una malattia più comune delle carie. Nella nostra squadra, ad esempio, solo Preston, Vernon ed io, tre su trentaquattro, eravamo favorevoli all'integrazione e il merito era tutto dei nostri genitori, ferventi democratici. Tutti gli altri, invece, erano convinti dell'inferiorità dei negri, come lo erano i loro di genitori e questi ultimi non erano composti solo da bigotti contadini, come si sarebbe portati a pensare, si trattava di banchieri, avvocati, medici e persino professori.


Date queste premesse è facile capire quanto ci stupisse quella scena nel lontano 1948, perchè quello che era arrivato con l'allenatore Riley era inequivocabilmente un negro fatto e finito ed era il primo mai entrato nel nostro campo di gioco, giardinieri a parte.


Il suo abbigliamento era ridicolo. Una maglietta strappata con i numeri scritti a mano e un casco simile a quelli utilizzati una ventina di anni prima. E gli stava pure piccolo. Le scarpe poi erano da lavoro, con un bel buco sotto il piede sinistro. I calzoni erano normali pantaloni di tela, di quelli usati nei campi per raccogliere il cotone.


Normalmente avremmo riso del suo aspetto, prendendo il giro il ragazzo e appellandolo come avevamo sentito appellare quelli della sua razza per anni in paese. Quel giorno però nessuno provò a fare una battuta. Nemmeno una. Non ne eravamo in grado. Eravamo senza parole.


A parlare fu l'allenatore.


“Questo è Jeremy, milita nella squadra del liceo di Welby (liceo all black situato nella contea vicina). Oggi giocherà con noi.”


Nessuno replicò. Ci guardammo tutti negli occhi. Con noi? Un negro? A quel punto a parlare fu, come al solito, Dwyght.


"Io con un negro non gioco." disse.


La risposta di coach Riley fu fulminante.


"Infatti, Jeremy gioca al posto tuo. Tu vai in panchina."


Dwyght andò in panchina rumoreggiando un po', ma senza contestare l'ordine. Una cosa va detta di Dwyght: il padre l'aveva bastonato tante di quelle volte che il concetto di autorità gli era ben instillato in testa, ma ancora più in profondità era instillata la sua venerazione per il coach. Senza di lui, gli allenamenti e la squadra, gli sarebbe toccato rimanere a casa e quello era il suo peggior incubo. Il coach lo sapeva e per questo ogni tanto lo puniva di più, per dargli la scusa di starsene al campetto anche fuori dall'orario stabilito, lontano da pugni e calci che spesso lasciavano cicatrici che negli spogliatoi facevi finta di non vedere.


Il resto della squadra non era molto convinto dell'idea del coach. Giocare con un negro non si faceva, per cui nessuno si mosse.


Il coach di fronte a questo ammutinamento, reagì nella maniera consueta. Iniziò a urlare ordini. E noi, come cani addestrati a obbedire senza ragionare, ci mettemmo in campo. La difesa e l'attacco si schierarono l'una contro l'altra. Per quanto mi riguarda, seguivo il gruppo. Avevo la testa piena di domande e non riuscivo nemmeno a organizzarle per tentare di dare una risposta. Tutto era assurdo. Nella formazione a T utilizzata di norma nei nostri schemi offensivi ero l'uomo in movimento. Il coach aveva chiamato uno schema di corsa. Quindi io stavo in campo solo per dimostrare di seguire le tracce e nulla più. La palla non mi sarebbe mai arrivata. Sarebbe stata data a Samuel e lui avrebbe corso nel mezzo aiutato da Danny Felp, il fullback, che gli avrebbe aperto la strada. Danny non era veloce, ma grosso il giusto e forte di più. Improvvisazione e talento zero, ma se gli dicevi di correre in una direzione, lui partiva non spostandosi di un millimetro dala traiettoria indicata, abbattendo nel contempo qualunque cosa avesse trovato sul cammino. Un fullback fatto e finito, insomma.


In pochi però si preoccupavano dello schema di gioco. Tutti erano focalizzati sul negro, il quale stava dietro la linea di difesa con gli occhi fissi sul pallone, in apparenza incurante del fatto che la maggior parte di noi gli avrebbe volentieri rotto le gambe. Il tipo era piuttosto alto e sembrava molto robusto. Molto più di noi a dirla tutta. Gli altri due linebackers stavano più esterni del solito. Con lui non volevano avere niente a che fare. L'azione iniziò e si vide subito che nessuno di noi si impegnava più di tanto. La linea difensiva non metteva alcuna pressione all'attacco. I giocatori si limitavano ad abbracciarsi facendo finta di lottare per prendere posizione. Io ero partito per la mia traccia, ma quella scena era troppo ridicola e, quindi, dopo qualche passo mi fermai a guardarla. Mi aspettavo di sentire il fischietto dell'allenatore seguito da una sequenza di imprecazioni che ci richiamasse all'ordine, ma non sentii nulla perché Jeremy era già scattato come una furia. Spostò letteralmente i giocatori davanti a lui mandandoli a terra, indifferente che fossero difensori o attaccanti, per lui erano solo birilli da spostare.


Dall'altra parte Danny partì per fargli male. Si vedeva che andava basso per cercare di colpirlo alle ginocchia e possibilmente romperle. Jeremy se ne accorse e con un movimento fluido e preciso ruotò su se stesso, mandando a vuoto Danny. Intanto la palla era arrivata a Samuel Cody Fellis che era partito dietro a Danny, trovandosi però al suo posto Jeremy il quale si produsse in un placcaggio da manuale. La spalla di Jeremy andò a colpire con precisione chirurgica il braccio con cui Samuel teneva il pallone. Il risultato fu che la palla venne persa. Jeremy la raccolse e si involò da solo in end-zone, mentre noi, i migliori, eravamo rimasti fermi impietriti.


Jeremy non festeggiò, ma si limitò a tornare dal coach consegnandogli il pallone recuperato. A far casino ci pensava Dwyght che insultava tutti i suoi compagni.


"Pezzi d'asino, come cazzo fate a giocare così? Sembrate delle ragazzine. Nessuno capace di placcare uno sporco negro? Siete una vergogna, cazzo."


L'allenatore ci richiamò tutti davanti a sé, Jeremy rimaneva accanto al coach, a buona distanza da noi. Le nostre facce erano chiare su cosa gli avremmo fatto se ci fosse stato possibile. Il coach si rivolse a Samuel.


"Fatti dieci giri di campo. Sono stufo di ripeterti che il pallone si protegge con entrambe le mani quando si corre nel mezzo."


Samuel provò una timida protesta. L'allenatore non lo lasciò parlare. "Se da qui alla fine dell'anno vuoi ancora giocare con questa manica di incapaci, mettiti a correre; in caso contrario, domani puoi pure fare a meno di presentarti. Ci siamo capiti?" Samuel iniziò a correre.


L'allenatore, quindi, si rivolse a tutti noi. "Ora Jeremy giocherà un'azione al posto di Samuel. La stessa azione di prima. Voglio una corsa interna.” Quindi, verso Dwyght. "Torna in campo."


Dwyght non se lo fece ripetere due volte e si infilò il casco.

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