venerdì 29 febbraio 2008

Domande senza risposta da qui all'eternità, dove, per eternità, si intende casa mia

Hanno tempestato la redazione di lettere, roba che Saigon era Disneyland in confronto (citazione più o meno di Gino & Michele che nessuno ha mai capito che lavoro facciano esattamente). Vogliono sapere perché pubblichiamo racconti se non siamo scrittori, articoli se non siamo giornalisti, cazzate se non siamo comici e foto di donne se non andiamo mai a donne. Ci scrive anche Francesco da Torino chiedendoci come mai piazziamo sempre Luciano Moggi in modo sarcastico nei nostri sondaggi; beh, caro Francesco, anzitutto non capiamo come tu faccia a vedere sarcasmo in un sondaggio e, in secondo luogo, nessuno di noi se la prende, come affermi nella tua mail, col caro Big Luciano che, in redazione, consideriamo una vittima del sistema. Come Giulio Andreotti (a sinistra... ssssst!!!). Ma la storia gli darà ragione, del resto Henry Kissinger viene oggi considerato come un uomo che si è fatto un mazzo tanto per la pace nel mondo, quindi stai sereno. La storia aggiusta tutto, dipende solo da chi la scrive.

Per il resto diventa difficile scrivere dopo tanta (personale) assenza anche perché di cose ne sono successe tante. Fidel Castro ha dato le dimissioni e finalmente i cubani avranno elezioni libere e, magari, si riprendono indietro tutti quei rompicoglioni che hanno contagiato il popolo italiano coi balli latino-americani (ok, i loro sono balli caraibici, ma vi assicuro che non cambia tanto, non è come le evidenti differenze che ci sono tra calcetto e calcio e tra football e arena football). Lasciamo stare. Fidel Castro, dicevamo, si è dimesso nonostante mi sia parso in buonissima forma e ancora abbastanza lucido per guidare la rivoluzione contro il mondo capitalista.

L'Inter ha dominato a Liverpool (a sinistra un simpatico inglese) dimostrando finalmente di poter essere una grande anche in Europa e, va detto, Nils Liedholm aveva proprio ragione quando diceva che in 10 si gioca meglio che in 11. Resta da capire se intendeva 10 contro 11 o10 contro 10 mutazione regolamentare che avrebbe potuto proporre per vedere se gli riusciva di perdere anche con la nuova formula. Oh, Liedholm è quello che tanti anni fa disse che Roberto Cravero era il giovane più interessante in Serie A (lo disse per dieci stagioni consecutive, anche quando Cravero si era già ritirato) e, stessa intervista, che il Casale era la migliore squadra vista negli ultimi 5 anni perché "giocare in C1 oggi è difficilissimo". Il Casale retrocesse al termine di quella stagione ed è ipotizzabile che la prima classificata avrebbe vinto il mondiale da sola se solo vi avesse potuto partecipare.

E ancora, tornadno a noi, sempre l'Ambrosiana ha pareggiato in casa con la Roma e tutti dicono che lo scudetto l'ha vinto al 95%; a me sembra che non corrano troppo 'sti qua, ma non mi pongo troppe domande in questo senso, anche se l'esultanza tardelliana di Capitan Zanetti ha avuto un che di eccessivo. Comunque Mancini verrà cacciato perché non vincerà la Champions e Moratti assumerà Mourinho, riuscendo in un sol colpo a piazzare una doppietta storica: prendere uno più antipatico di quello che c'è oggi e cacciato dalla sua precedente squadra per lo stesso motivo per cui lui licenzierà Mancini. Favoloso. Questo Moratti mi riavvicina al calcio, quello dei Moriero e degli Ze Elias, quello del Recoba nano da giardino a Villa Moratti e del Boo Vieri che li appende tutti al muro.

E' successo anche che i Chicago Bears hanno firmato un prolungamento di un anno a Rex Grossman, poco prima che Kyle Orton (a sinistra in allenamento) volasse alle Hawaii per sposarsi e poco dopo che Jerry Angelo aveva dichiarato che "sì, è vero, ci sono molti soldi da spendere per noi quest'anno, ma averne tanti non significa che li devi spendere". Ora, signor Angelo, mi stavo giusto chiedendo... ma i soldi sono tuoi? Ma che cazzo te ne frega a te? Spendi no? Che diavolo di remore ti stai facendo, ora cosa farai, uscirai dicendo che visto che in Africa si muore di fame allora a Berrian i soldi non li diamo? 8 milioni di garantito? 8 (otto)? Angelo, porca puttana, io li prenderei al volo, ma in Nfl non punti a un WR titolare con 8 milioni... dai, siamo seri, spacca quel fottuto maialino che hai sul comodino e fai felice la vecchiaccia, mantieni questa squadra in posizioni che le competono. Rispetta la storia perbacco. Ed invece, nessuna risposta per le mie domande. Tranne la firma per Rex "intercetti in alta definizione su Sky" Grossman.

Pensavo a tutto questo mentre viaggiavo tornando verso casa, passando sotto una palestra dove una marea di creitini ogni sera si incontrano a guardare culi e per correre sui tappetini che rotolano a velocità 0. Non è vero, non penasavo a Inter-Liverpool, ma solo alla free agency dei Bears e al fatto che tutti i tifosi di football sembrano contenti tranne noi che paghiamo 8 dollari una birra e 4 un hot-dog, e me lo ha detto uno che vive vicino a NY ma che fa la spesa a Chicago perché c'è una Coop e si spende meno. Quelli dei Saints sono felici, quelli degli Eagles anche, quelli dei Giants comunque vadano le cose sono i più contenti di tutti.

Ascoltavo i Pogues (a sinistra un sobrio Shane MacGowan) e pensavo sarebbe stato bello parcheggiare a Soho, bagnarsi di pioggia e infilarsi in un pub. Ascoltavo i Creedence e pensavo sarebbe stato bello sostare al primo saloon sulla destra, bere birra e pisciare in un cesso che un tempo fu "white only" e, sempre per motivi razziali, preferisce tenere la turca. Pensavo a quanto sia buono l' EstaThé e al fatto che io, prima della Ferrero, ho capito che il mix EstaThé, nutella e grissini fosse meglio di un orgasmo multiplo che tanto noi uomini non avremo mai. E se qualcuno vi racconta di averlo avuto mente.


Mi chiedevo se la storia assolverà davvero Castro, se Obama toglierà l'embargo perché la Clinton ha già detto di no e l'altro, il pelatone repubblicano, non lo considero nemmeno. Non fosse altro che è sponsorizzato da un pazzo più siliconato della Parietti che non solo ha girato, prodotto e mandato nei cinema di tutto il mondo John Rambo, ma ha dichiarato di avere in mente altre due sceneggiature per lo stesso personaggio... Lee Oswald dove cazzo sei???
Nessuna risposta da Lee...

Mi chiedevo se il prossimo Cobra si chiamerà Marion Cobretti , se il prossimo Stayn' Alive sarà intitolato Tony Manero, se la prossima serie di Happy Days si chiamerà semplicemnete Tom Bosley (a sinistra) e se il prossimo anno avremo il Festival di San Pippo. Mi chidevo tutto questo perché, come ho ripetuto decine di volte, dopo le cose serie nella vita ci sono le cazzate e quando Angelo non fa nulla per fartele sembrare piacevoli devi incrociare le dita e pregare. Anche coi Pogues e coi Creedence. Pregare che non ci sia mai un Rambo 5, un Cobra 2, un Fantozzi 9 e un altro Festival Sanremese.

Mi chiedevo chi sarà mai la neo-signora Orton e se per trovare un quarterback decente i Bears dovranno aspettare che il primogenito del suddetto, non ancora embrione e, forse, nemmeno pensiero, abbia finito il college. Mi chiedevo cosa farei io se fossi uno scout Nfl e se Angelo e Moratti hanno qualcosa in comune, oltre al fatto che il primo ha il cognome uguale al nome del padre del secondo ed entrambi hanno sangue italiano. Angelo beve quanto Massimo? Che cazzo bevono in Nfl scout e dirigenti vari? Vanno al cinema? Ne hanno il tempo? Trombano le mogli o a quello ci pensa il terzo quarterback della squadra? Vedono film porno? Scaricano dal mulo? Esiste un posto dove la Nfl non si ferma mai e giocano almeno 50 settimane all'anno?

Qualcuno segue la Continental Indoor Football League? E una lega di football professionistico per donne? Quelle donne saranno quasi tutte lesbiche come le calciatrici? Le calciatrici saranno favorevoli ai Pacs? E a Castro? E a Rambo 5? Mi chiedevo se la playmate di febbraio di ECT potesse essere una cheerleader Nfl, vista l'astinenza, e mi chiedevo perché nel 1985 Virginia McCaskey licenziò le Honey Bears dopo una decina d'anni di attività. George Halas (dio ti abbia in gloria) non lo avrebbe mai fatto. Mi chiedevo se la "Maledizione delle Honey Bears" sia reale e, in questo caso, se Angelo potesse riaprire alle cheerleaders a Chicago. Costano meno di un giocatore e interessano più dei tamburelli che si piazzano in mezzo al campo per l'half time.



Mi chiedevo se Michelle Lombardo (sopra) potesse essere la nostra playmate di febbraio. Ancora una volta, nessuna risposta, ma febbraio è finito e questa passa, così nessuno si lamenterà più almeno delle playmate (anche se arrivano in ritardo). Per i racconti di Alvise, invece, non v'è certezza.

C'entra?

Nessuna risposta...

martedì 26 febbraio 2008

L'uomo nero (terza parte)

Questa volta ci saremmo impegnati eccome. Non potevamo permettere che quel negro ci ridicolizzasse di nuovo. Ovviamente - non credo ci sia nemmeno il bisogno di dirlo - il più risoluto era Dwyght. Non sopportava l'idea che quel negro fosse riuscito a pavoneggiarsi giocando nel suo ruolo davanti al coach. Era un'offesa al suo amor proprio. Nell'ottica tutta personale di Dwyght, il coach Riley era il padre che avrebbe voluto avere. Severo, ma giusto. L'idea che potesse preferirgli un negro era insopportabile. Avrebbe dimostrato al coach che lui era il migliore.

Quando ci schierammo, Dwyght si avvicinò alla linea di scrimmage. Vidi che le sue labbra si muovevano, ma non riuscii a capire cosa dicesse. Ebbi, però, la certezza che si fosse messo d'accordo con gli altri perché gli permettessero di passare senza creargli ostacolo, in modo da facilitargli il placcaggio del negro.


Nell'attesa dello snap, Dwyght si mise a camminare nervosamente su e giù. Sembrava un cane rabbioso rinchiuso dentro un recinto, impegnato alla ricerca di uno spiraglio. E mentre si muoveva non smetteva mai di gridare contro Jeremy. "Ti spacco, sporco negro." "Adesso ti faccio chiamare la mamma, sporco negro." e decine di altre frasi il cui filo conduttore era sempre lo sporco negro. Non potei non cogliere una certa ironia negli insulti di Dwyght. Sporco... detto da lui... il mio compagno non brillava certo per igiene. Era notoria la sua avversione all'acqua delle docce.


"Sbattilo a terra, che così sembrerà uno stronzo di cane sul prato." urlò infine Elmer Cartwright, il nostro defensive back, che in condizioni normali avrebbe dovuto marcare me, se Preston avesse fintato la corsa e fosse andato per il passaggio. Dwyght in sua risposta, assentì con la testa, tenendo però lo sguardo fisso su Jeremy, il quale sembrava non sentire niente, tanto era calmo e rilassato. Era da ammirare tanto controllo. Sembrava, anzi, che la situazione lo divertisse, dalla piega che aveva la sua bocca.


Al momento dello snap con cui fu messa in gioco la palla, la nostra linea offensiva si aprì davanti a Dwyght come il Mar Rosso davanti a Mosè. Preston, vedendosi arrivare il pallone insieme a Dwyght abortì il gioco di corsa e si curò di proteggere il pallone, preparandosi al placcaggio, ma il nostro linebacker, contro ogni legge del gioco, si disinteressò del quarterback e del pallone, dirigendosi senza esitazione contro lo sporco negro. Danny, che in teoria avrebbe dovuto usare il suo corpo per difendere il suddetto sporco negro e facilitargli la corsa, rimase fermo. Come il resto della linea offensiva approvava la risoluzione Dwyght: il negro doveva essere spaccato.


Dwyght fece un balzo in avanti lanciandosi contro il suo obiettivo. Jeremy non provò alcuna finta per evitare il colpo, si limitò a fare un semplice passo a sinistra. La foga di Dwyght era troppa e non riuscì a fermare il suo slancio finendo lungo disteso per terra sul punto in cui un attimo prima c'era il suo bersaglio.


Fu a quel punto che sentimmo per la prima volta la voce di Jeremy. Era cavernosa con uno strano accento. "Gimmy da boll" urlò a Preston e lui istintivamente gliela passò con sottomano. Jeremy partì come un treno nella mia direzione, mentre Dwyght si rialzava urlando rabbioso. Jeremy mi passò vicino. Io ero il giocatore più veloce della squadra senza alcun dubbio, ma mi bastò vedere quella scheggia nera passarmi accanto per capire che in quel momento ero il secondo più veloce sul campo. Aveva una fluidità di movimenti e una rapidità nei passi da togliere il fiato.


In difesa, aspettandosi tutti il placcaggio di Dwyght, nessuno si era mosso e gli altri linebackers quando avevano capito cosa stava succedendo erano già belli che superati. L'unico ostacolo tra Jeremy e la segnatura era Elmer Cartwright, che poi non era 'sto gran ostacolo. Elmer era disperso nel campo solo soletto e non poteva certo coprirlo tutto, anche perché essendo lui fermo e Jeremy in corsa, se quest'ultimo avesse voluto avrebbe potuto arrivare a segnare senza nemmeno essere avvicinato da Elmer. Gli sarebbe bastato tagliare a sinistra. Jeremy, invece, puntò Elmer. Voleva lo scontro. Probabilmente aveva registrato la frase rivolta da Elmer a Dwyght prima dello snap.


Elmer puntellò i piedi nel terreno conficcando i chiodi in profondità nell'erba. Si piegò sulle ginocchia e attese l'urto. Jeremy avrebbe potuto ancora evitarlo. Elmer ormai volente o nolente non si sarebbe mai potuto spostare. Invece Jeremy proseguì la sua corsa, abbassò la testa e passò oltre come se avesse sfondato una ragnatela. Elmer in un amen si ritrovò lungo dritto sul terreno come un enorme zerbino ben calpestato, per non dire che era uguale a uno stronzo di cane sul prato. Sotto i tacchetti delle sue scarpe erano rimaste incastrate due belle zolle di terreno misura nove e mezzo.


Dopo aver segnato per la seconda volta nel giro di dieci minuti, Jeremy si voltò guardò nella nostra direzione e con una spallata potente e precisa lanciò il pallone alla volta di Preston. Cinquanta yards di passaggio preciso al millimetro. Preston lo prese senza nemmeno muoversi. Solo a quel punto Jeremy si regalò un moto di esultanza e si mise a sorridere divertito. Aveva una dentatura incredibilmente bianca e regolare, una cosa difficile da veder in bocca a un bianco dalle nostre parti, figurarsi in bocca a un nero. Comunque, dentatura o non dentatura, aveva tutte le ragioni del mondo per sorridere. Aveva battuto da solo la squadra vincitrice del campionato statale tra i licei riservati ai bianchi. Si era dimostrato un difensore più abile del nostro miglior difensore, un running back più agile del nostro titolare, più veloce di me e con un braccio migliore di quello di Preston. Non ci aveva battuto, ci aveva ridicolizzati.


Dwyght se ne rese conto e impazzì letteralmente iniziando a correre come un pazzo in direzione di Jeremy con il chiaro intento di prenderlo a pugni. Jeremy non si mosse.


Prima però che la situazione potesse degenerare entrò in campo coach Riley. Il suono del fischietto bloccò Dwyght sulla linea delle venti yards.


"Signorine, piantatela di rendervi ridicole più di quanto non abbiate fatto. Non eravate voi a dire nemmeno un'ora fa di essere i migliori di tutti? Bene, adesso che avete visto un vero giocatore di football all'opera, siete ancora convinti di essere i migliori? Non me ne frega un cazzo che Jeremy sia negro o giallo o verde. E non dovrebbe fregarvene niente nemmeno a voi, perchè sul campo gli unici colori che contano sono quelli della vostra squadra e gli unici colori che dovete odiare sono quelli degli avversari. Ma non sono qui per farvi un discorso sui diritti civili. Io sono qui per fare di voi dei giocatori di football e da quel che ho visto oggi, ho fallito miseramente. Prima che voi “campioni” possiate solo ipotizzare che gli allenamenti a voi non servono, dovrete almeno giocare al livello di Jeremy. Adesso tutti fuori dal campo. Andate a farvi la doccia. Oggi è un giorno che non c'è stato. Domani sarà il primo giorno di preparazione della stagione e vi voglio vedere faticare come mai vi ho visto fare. In caso contrario io mi dimetterò da allenatore e vediamo se voi siete tanto bravi da vincere da soli."

Detto questo si avvicinò a Jeremy, gli fece i complimenti per la prestazione e se ne andò via con lui.


Per l'ennesima volta nell'arco di quel giorno non sapevamo cosa fare, meno male che c'era il vice allenatore Thomas.

"Non avete sentito? Brutti bifolchi incapaci, andate subito alle docce e in fretta."


E fu così che andammo negli spogliatoi. Eravamo incazzati con Jeremy, con il coach, ma soprattutto con noi stessi. Mentre mi toglievo le protezioni, giurai a me stesso che non le avrei mai più indossate. Avevo chiuso con il football. Quanto avevo visto mi aveva aperto gli occhi. Non avevo abbastanza talento per giocare. Mentre mi lavavo però mi ero già rimangiato tutto. Io adoravo giocare e se quel ragazzo nero poteva essere più veloce di me, io avevo altre caratteristiche e sarei migliorato ancora. Mi sarei allenato sarei diventato più forte, più veloce e avrei corso meglio le tracce. Non mi sarei arreso solo perché uno era più veloce di me.


Uscito dalla doccia mi avvicinai a Preston.

"Stasera ti va se mi fai qualche lancio dietro casa?"

“Ti stavo per proporre la stessa cosa.”


Per tornare a casa dovevamo attraversare il campo e lì trovammo Jeremy ancora vestito per giocare. Aveva fatto finta di andare a cambiarsi e poi era tornato in campo e adesso stava provando placcaggi su placcaggi sul sacco di allenamento posizionato appena fuori dal terreno di gioco. Non provammo a parlargli. Non era difficile capire come si stava sentendo. Continuare a colpire fino allo sfinimento quel povero sacco era il suo modo per scusarsi con il coach per aver dato il via a quella terribile giornata con le sue battute durante la corsa di riscaldamento.


Arrivato a casa non dissi niente ai miei genitori. Risposi a monosillabi a tutte le domande che mi venivano rivolte. Nove volte su dieci mentivo. Ti sei divertito? Sì. Coach Riley vi ha fatto faticare come al solito? Sì. Qualcuno tra le matricole si è messo in luce? No. Nessuna faccia nuova, allora? NO, nessuno di nuovo.


Appena mi fu possibile andai in camera. Quella notte non dormii molto. Continuavo a pensare a cosa era successo quel giorno e a come evitare che si potesse ripetere. E l'unica risposta era spaccarsi il culo. A giudicare dal fatto che il giorno successivo tutta la squadra, nessuno escluso, si presentò all'allenamento mezz'ora prima dell'ora stabilita, non fui l'unico a passare la notte in quel modo.


Peccato che quel giorno non per nostra volontà, l'allenamento non si tenne.


Non si sa come, la notizia dell'ingresso di un negro agli allenamenti era arrivata al preside, il quale aveva immediatamente convocato l'allenatore Riley. Fosse stata confermata quella voce, l'avrebbe licenziato su due piedi, titolo o non titolo. Le direttive del governatore e del KKK erano chiarissime: nessuna integrazione, nessuna eccezione. I negri dovevano rimanere al loro posto. Chi trasgrediva ne avrebbe subito le conseguenza.


La risposta all'interrogatorio del preside da parte del coach fu semplice.


“Io in campo ho portato un giocatore di football. Sinceramente non mi ricordo il suo colore.”


Il preside non apprezzò. E quando si sentì ripetere le stesse parole dal vice allenatore Thomas si incazzò proprio. Decise quindi di chiamare anche noi. Fummo sentiti tutti e tutti confermammo la versione dell'allenatore. Non perché fossimo liberali fautori dell'integrazione. Come detto, la maggior parte di noi si sarebbe iscritta da lì a poco alla fratellanza bianca, se non era già iscritta, ma ne avevamo discusso e la conclusione era solo una: l'allenatore ha sempre ragione e il preside non conta un cazzo su un campo da football. La sua autorità finisce dove inizia l'erba. Quindi non erano affari suoi cosa era successo il giorno prima. Noi eravamo stati stupidi e l'allenatore ci aveva dato una lezione. Discorso finito. Oltretutto a convincere gli ultimi dubbiosi ci aveva pensato Dwyght: “A chi parla, gli spacco le gambe.” Nessuno parlò e il preside si ficcò la sua crociata bianca dove non batte il sole.


Chiusa questa stupida parentesi, il resto della preparazione fu uno spettacolo di abnegazione. Eravamo invasati. Volevamo dimostrare all'allenatore che eravamo meglio di Jeremy. Ci allenammo come non mai, in silenzio, senza mai discutere gli ordini del coach. Anzi, su nostra stessa richiesta gli allenamenti raddoppiarono. Ogni momento libero era dedicato al football. Niente più Jamie Lee, niente più alcol e sigarette, solo football. Ce ne nutrimmo per mesi e i risultati si videro. Vernon a fine stagione faceva novantasette flessioni di fila, una per ogni suo chilo, senza nemmeno sudare. Preston registrò il record di yards passate, completi e passaggi per touch down. Io corsi come non mai e stabilii il record scolastico di ritorni in end zone con cinque, nonché tutti i record scolastici per passaggi ricevuti. E non dimentichiamo Dwyght. Trascorse il campionato a buttare a terra tutto quello che gli arrivava vicino. Non sbagliò un singolo placcaggio e mandò tre quarterback avversari in ospedale; degli altri ruoli manco parlo. Era peggio di un bombardamento a tappeto da quanti feriti si lasciò dietro sul campo. A ogni placcaggio la frase era sempre la medesima: "Fidati, sei più scarso di un negro." Il risultato fu una stagione trionfale, vincemmo tutte le partite e anche senza voler umiliare gli avversari i punteggi furono imbarazzanti. In finale incontrammo ancora la Abraham Lee High School e questa volta non vincemmo di tre con un calcio allo scadere, vincemmo di trenta. Lo Stonewall era diventato un gruviera. A campionato concluso i quattro giocatori appena nominati, compreso il sottoscritto, vinsero borse di studio in varie università. Nessuna squadra della scuola aveva mai avuto tanti giocatori selezionati e nessuna mai ne ha avuti altrettanti dopo. Però, nonostante tanti e tali record e per quanto ci osannassero in paese, questa volta neppure uno di noi pensò anche solo per un attimo di essere il migliore. La lezione l'avevamo imparata.”


A questo punto il mio vecchio coach dei tempi di New York si fermava nella sua narrazione, attendendo che qualcuno alzasse la mano e chiedesse di Jeremy. Non era mai un'attesa lunga.


“Non c'è mai stato nessun Jeremy o almeno, se c'era, non era certo il magnifico giocatore sceso in campo contro di noi. Il nostro allenatore ci aveva preso in giro organizzando il tutto al solo scopo di darci una sonora lezione per punirci della nostra prosopopea. Jeremy, vero nome Sideny Virgil Tibbs, non aveva mai frequentato il liceo di Welby e non era nemmeno uno studente di liceo. Era un universitario di ben tre anni più vecchio del più vecchio di noi e giocava per la squadra del suo ateneo nel ruolo di corner back.


E non era nemmeno dell'Alabama. Era sempre vissuto in California, dove i suoi genitori, nativi del nostro stato si erano trasferiti (fuggiti) prima della sua nascita.


Era tornato qui a far visita a una sua vecchia zia; zia che per pura coincidenza era la ex governante di coach Riley. Non era però venuto qui per il suo spiccato senso della famiglia. Negli anni cinquanta se eri un negro che viveva in California, dovevi avere una ragione speciale per voler andare in un posto dove i cani potevano entrare nei ristoranti riservati ai bianchi, ma un nero no. Questa ragione risiedeva nella vera passione di Sidney che, incredibile a dirsi non era il football, ma il diritto. Sidney, infatti, studiava giurisprudenza ed era nel contempo un attivista per i pari diritti tra afroamericani e bianchi. Per questo era voluto andare nella terra dei suoi genitori. Voleva rendersi conto di persona di quale fosse la condizione degli afroamericani negli stati del sud e non limitarsi a quanto riportato in giornali o da terze persone.


La realtà si era rivelata ben peggiore di ogni sua immaginazione, ma aveva anche scoperto che non tutti i bianchi erano uguali. Il coach Riley, ad esempio, era uno di queste eccezioni. Trattava sua zia come una di famiglia, alla pari. Ormai non era più una governante. I reumatismi le impedivano la maggior parte dei movimenti e, quindi, era diventata un membro della famiglia. La zia viveva nella loro casa e mangiava con loro allo stesso tavolo. Nessuna discriminazione.


Come quell'attivista, appena giunto in paese fosse arrivato sul nostro campo vestito in quella maniera ridicola, si trovava nella mente contorta del nostro coach.


Vedendoci svogliati e supponenti quel fatidico 8 agosto, Coach Riley aveva pensato all'atletico nipote della sua governante. Era arrivato da poco, in paese non l'aveva visto nessuno. Per non creare problemi alla zia, Sidney si muoveva nelle altre contee. Coach Riley con occhio esperto l'aveva già inquadrato e sapeva che anche grazie alla differenza di età, ci avrebbe potuto dare una bella lezione. Inoltre, era sicuro che noi ci saremmo bevuti la storia del giocatore del liceo. Eravamo troppo stupiti di vedere un negro in campo per preoccuparci della sua età e, oltretutto, diciamolo, per noi i negri erano tutti uguali.


Era quindi corso a casa e aveva illustrato la sua idea ad Sidney, precisando che se avesse accettato si sarebbe dovuto sorbire una montagna di insulti, oltre a correre più di un rischio per la sua incolumità fisica.


Sidney aveva accettato per una molteplicità di ragioni: avrebbe avuto ciò per cui era andato in Alabama, essere trattato come un negro, avrebbe infranto quella ridicola regola dei campi da football riservati ai bianchi e nel contempo avrebbe dimostrato quale era la razza migliore e non pensava certo a quella pallida.


Improvvisarono l'abbigliamento con vestiti vecchi dello zio di Sidney per il casco, si era ricorso a quello usato dal coach Riley quando giocava. Ovvio che ci fosse sembrato datato e fuori misura sulla testa di Sidney. Il ragazzo dava quindici centimetri al nostro vecchio coach.


Cosa successe dopo già lo sapete.


Preston ed io scoprimmo cosa era successo veramente, quando spinti dalla curiosità e dalla voglia di misurarci con nuove sfide, bruciammo un giorno di scuola per recarci a Welby a vedere gli allenamenti della loro squadra di football. Fu una vera delusione. Non erano forti come li avevamo immaginati. Avevano alcuni ottimi giocatori, ma peccavano in organizzazione e nel complesso non credo avrebbero potuto infastidire la nostra squadra. Di Jeremy, poi, nessuna traccia. Quando trovammo il coraggio di farci vedere e chiedemmo di lui, con nostro stupore ci risposero che non c'era nessun Jeremy in squadra. Lo descrivemmo e loro si misero a ridere.


“Ma quello mica gioca con noi. È un universitario californiano. È venuto a dare un'occhiata alla scuola insieme a un bianco come voi, un tipo basso con l'aria severa (coach Riley pensammo Preston ed io). Quello che cercate ha giocato anche un po' con noi. Accidenti, mai visto nulla del genere. Era fortissimo.”


Da quel punto in poi scoprire il resto non fu difficile. Sapevamo del nipote californiano della ex governante del coach, perché lei se ne vantava sempre con tutti. E quando il padre di Preston ci disse di averlo anche incontrato durante l'agosto precedente, ci fu chiaro il reale svolgimento dei fatti. Tuttavia non dicemmo niente ai nostri compagni. Il mito dello sconosciuto Jeremy era un motivatore assai più efficace della storia di Sidney Tibbs.


Con questo credo di avervi detto tutto, aggiungo solo una notizia a mero titolo informativo. Qualche anno dopo appresi dalla zia di Sidney che il suo nipotino aveva abbandonato il football per dedicarsi completamente alla professione forense, diventando un rinomato avvocato specializzato nelle cause aventi ad oggetto la tutela dei diritti civili degli afroamericani.


Concludo ripetendo le parole che il mio vecchio coach disse quando il 10 agosto ricominciammo gli allenamenti dopo tutto quel trambusto messo su dal preside: “A me non frega un cazzo di chi è il migliore e ora mettetevi a correre, che a parlare si perde solo tempo.”


Ho sempre adorato questa storia. Ha la capacità di rabbonirmi. Il concerto degli AC/DC non era ancora terminato, ma potevo anche spegnere l'i-pod. La cazzata successa al bar era ormai acqua passata. Mi sbagliavo. Quando aprii gli occhi mi ritrovai davanti il mio collega, quello che non capisce niente, ma ha una bella dentatura e agganci ancora migliori. Mi stava dicendo qualcosa e da come si agitava non sembrava niente di educato. Mi tolsi le cuffie.


“Cosa c'è?”


“Come ti sei permesso di insultare mio figlio?” disse indicando fuori dal mio ufficio. Dietro il muro a vetri vidi il cerebroleso che avevo gentilmente ripreso al bar poco prima.


“È tuo figlio? Accidenti mi spiace, se avessi saputo che era affetto da tare genetiche non l'avrei mai redarguito. Non me la prendo coi disabili. Vagli a dire che mi dispiace e adesso scusami che stavo occupandomi di affari importantissimi.”


Detto questo mi son rimesso le cuffie. Lui iniziò a dire qualcosa, ma io non lo sentivo, Angus Young stava eruttando l'assolo durante for those about the rock. Fulminai il collega con uno sguardo amichevole. Mi alzai con calma, salutai il figlio geneticamente avariato con un ampio sorriso e un moto del capo a mo' di scusa e poi sussurrai qualcosa al padre.


“Accontentati del fatto che mi sono scusato. Non tirare la corda, perché se no tuo figlio vedrà il suo grande papà finire per terra. Non sono il miglior pugile di tutti i tempi, ma sono certo di riuscire a romperti un paio di denti.”


Uscì in un attimo. Io tornai a sedermi presi l'ultima ciambella rimasta e rimisi le cuffie. Il live degli AC/DC era terminato, insieme al mio malumore. Tutto sorridente decisi di passare alla radiocronaca registrata dell'ultimo Super Bowl, l'ennesima dimostrazione che i migliori di tutti i tempi non esistono.

domenica 24 febbraio 2008

L'uomo nero (seconda parte)

Era l'otto agosto del 1948. Il primo giorno di preparazione. L'anno prima avevamo vinto il campionato scolastico battendo in finale la Abraham Lincoln High School. Nome mai utilizzato nella storia della scuola subito chiamata ufficiosamente e da tutti Robert Edward Lee High School. Che in Alabama il nome dell'amico dei negri mica si può usare. Ma il generale Lee a noi non interessava, il nostro problema era Stonewall, come avevamo ribattezzato la loro impenetrabile difesa (gioco di parole introducibile: stonewall significa muro di pietra, ma con tale nome era indicato anche un tenente generale dell'esercito confederato agli ordini del lo stesso generale Lee: Thomas Jonathan Jackson, n.d.tr.).


Solo un calcio sul finale ci aveva dato il vantaggio decisivo in una partita combattutissima terminata senza touchdowns con il miserando punteggio di nove a sei.


Nonostante il risultato striminzito e un match di trincea, nel complesso dominato dalle difese e dagli errori, quella vittoria ci aveva trasformato in degli eroi. L'unico motivo di vanto per quelle quattro case in croce di cui era composto il nostro paese. Era la prima volta che si vinceva qualcosa ed era la prima volta che la contea di Bloomfield finiva sul giornale di Montgomery, per qualcosa che non era un linciaggio di qualche nero. Le conseguenze furono immediate. Essere membri della squadra di football ci rese dei privilegiati. I voti a scuola salirono per tutti, persino quelli di Dwyght Schmidt, il nostro middle linebacker, un ragazzo che giocava per fare agli avversari ciò che suo padre faceva a lui. Sapeva a mala pena scrivere il suo nome, sbagliandolo peraltro tre volte su quattro. Ma nella finale di campionato aveva dominato in lungo e in largo, provocando anche il fumble decisivo che ci aveva permesso il drive del calcio del nove a sei. Per tale nobile ragione il Professor Carter aveva iniziato a dargli sei quando sbagliava il nome e sette quando lo scriveva giusto. I voti scolastici erano importanti, ma da bravi adolescenti gli ormoni lo erano pure di più. E qui veniva il meglio. Le ragazze si misero a guardarci in maniera diversa e molte, per nostra fortuna, non si limitavano a guardare.


Bianchi, belli e vincenti. Eravamo il massimo che si potesse ottenere a Bloomfield.


Qualcuno, anzi, molti ci vedevano già in qualche università e persino tra i professionisti, perché sia noi che i nostri concittadini eravamo certi di ripeterci.


La nostra squadra non aveva perso pezzi importanti alla fine dell'anno. L'ossatura era immutata. Io come ricevitore e ritornatore, Dwyght come capo della difesa, Preston Turges quarterback e Samuel Cody Fellis come running back eravamo all'ultimo anno. La linea offensiva e quella difensiva erano praticamente le stesse. Sì, avremmo vinto di sicuro, ce lo dicevano tutti e fu per quello che il primo giorno di allenamento arrivammo assolutamente fuori forma, stanchi e svogliati. Che ci serviva allenarci? Tanto avremmo vinto lo stesso, eravamo o non eravamo i campioni in carica? I migliori?


Quanto fossimo messi male si vide dopo nemmeno cinque minuti di corsa di riscaldamento attorno al campo. Metà del gruppo arrancava. I soliti davanti, ma nessuno che veramente si impegnasse. Scherzavamo e parlavamo tenendo la velocità minima indispensabile, intenti com'eravamo ad ascoltare Preston raccontarci di come erano sode le tette di Jamie Lee.


L'allenatore Riley urlò di smetterla di blaterare e iniziare a muovere il culo, se no ci pensava lui a farci muovere a calci. Come al solito Dwyght non riuscì a stare zitto. Questa sua abilità gli aveva regalato più giri di campo punitivi di chiunque altro nella storia della scuola. Ma proprio non gli riusciva di cucirsi la bocca.


"Coach, va bene così. Se ci stanchiamo troppo mica riusciremo a festeggiare bene la vittoria del prossimo campionato." e detto questo si fermò urlando a tutti: "Ho ragione o no?"


Quindici, i più vecchi e i più intelligenti, continuarono a correre, il resto si fermò e si mise ad applaudire Dwyght, urlando scempiaggini del tipo siamo i migliori, nessuno ci può battere e cazzate varie. Noi quindici ci mettemmo a guardare l'allenatore, certi che adesso avrebbe fatto una scenata di quelle da leggenda. Io pensai addirittura che avrebbe messo le mani addosso ad alcuni ragazzi. Non aveva mai accettato comportamenti del genere durante la preparazione. Durante gli allenamenti si sudava, si sputava, si ansimava, non si parlava, non si scherzava e, soprattutto, non si festeggiava. Di fronte a quella collettiva trasgressione delle sue regole, il coach non disse nulla, nulla di nulla, mentre i ragazzi continuavano a cantare. Normalmente avrebbe urlato come un faro antinebbia e invece si limitava ad osservare in silenzio. Quel comportamento, così anomalo e inconsueto, era spaventoso. Ebbi la chiara sensazione di un imminente catastrofe, del tipo metà squadra sospesa, ma nulla mi fece presagire quanto successe di lì a poco. Il coach si girò, andò dal vice allenatore Thomas e gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Quindi si allontanò.


Quando i miei compagni se ne accorsero, smisero di fare casino e alla buon'ora si zittirono.


Ci guardammo, disorientati e confusi. Non era mai successo nulla del genere. Non sapevamo come comportarci. Ognuno si rivolgeva al compagno più vicino chiedendosi cosa stesse succedendo. Non lo so. Se ne è andato. Ma dove è andato? Ma che gli è preso? Secondo te torna?


“SILENZIO!” urlò il vice allenatore Thomas. “Adesso sedetevi tutti in mezzo al campo. Il primo che parla si fa dieci flessioni. Il secondo venti e così via.”


Il brusio scomparve in un battito di ciglia. Sotto un certo profilo eravamo quasi felici di quella ramanzina. Era un bagno di normalità. Gli allenatori urlavano e noi obbedivamo. Queste erano le regole da che mondo è mondo. Non silenzi prolungati e voltarsi e andare via.


Cinquanta minuti dopo, eravamo tutti intenti a osservare Vernon Cardwell, il nostro right tackle perennemente sovrappeso, impegnato a tirarsi su per la ventiquattresima flessione non consecutiva. Gliene mancavano altre trentasei per portare a termine la punizione inflittagli per aver detto al vice allenatore Thomas che voleva andare in bagno. Da come sbuffava, difficilmente Vernon sarebbe sopravvissuto ad altre tre flessioni. Facciamo due.


“Ok ragazzi, smettiamola di giocare. Tutti in piedi.” Vernon Cardwell avesse avuto fiato avrebbe obiettato che non gli sembrava poi 'sto gran gioco. Non avendo fiato, si limitò a stramazzare al suolo.


Nessuno si occupò di lui. Il nostro allenatore era tornato. Ma per quanto l'avessimo atteso come gli ebrei il messia, non ci occupammo nemmeno di lui. Tutti eravamo ipnotizzati dal ragazzo che si era portato dietro. Non l'avevamo mai visto al campo e come poteva essere altrimenti? Eravamo in Alabama. Fino al 1954 i negri, neri sulle leggi federali, ma negri nel nostro stato, non potevano entrare nelle scuole dei bianchi e c'era voluta la guardia nazionale perchè succedesse. Per avere un negro nella squadra dell'università dell'Alabama si dovette aspettare fino al 1970. Il razzismo era una malattia più comune delle carie. Nella nostra squadra, ad esempio, solo Preston, Vernon ed io, tre su trentaquattro, eravamo favorevoli all'integrazione e il merito era tutto dei nostri genitori, ferventi democratici. Tutti gli altri, invece, erano convinti dell'inferiorità dei negri, come lo erano i loro di genitori e questi ultimi non erano composti solo da bigotti contadini, come si sarebbe portati a pensare, si trattava di banchieri, avvocati, medici e persino professori.


Date queste premesse è facile capire quanto ci stupisse quella scena nel lontano 1948, perchè quello che era arrivato con l'allenatore Riley era inequivocabilmente un negro fatto e finito ed era il primo mai entrato nel nostro campo di gioco, giardinieri a parte.


Il suo abbigliamento era ridicolo. Una maglietta strappata con i numeri scritti a mano e un casco simile a quelli utilizzati una ventina di anni prima. E gli stava pure piccolo. Le scarpe poi erano da lavoro, con un bel buco sotto il piede sinistro. I calzoni erano normali pantaloni di tela, di quelli usati nei campi per raccogliere il cotone.


Normalmente avremmo riso del suo aspetto, prendendo il giro il ragazzo e appellandolo come avevamo sentito appellare quelli della sua razza per anni in paese. Quel giorno però nessuno provò a fare una battuta. Nemmeno una. Non ne eravamo in grado. Eravamo senza parole.


A parlare fu l'allenatore.


“Questo è Jeremy, milita nella squadra del liceo di Welby (liceo all black situato nella contea vicina). Oggi giocherà con noi.”


Nessuno replicò. Ci guardammo tutti negli occhi. Con noi? Un negro? A quel punto a parlare fu, come al solito, Dwyght.


"Io con un negro non gioco." disse.


La risposta di coach Riley fu fulminante.


"Infatti, Jeremy gioca al posto tuo. Tu vai in panchina."


Dwyght andò in panchina rumoreggiando un po', ma senza contestare l'ordine. Una cosa va detta di Dwyght: il padre l'aveva bastonato tante di quelle volte che il concetto di autorità gli era ben instillato in testa, ma ancora più in profondità era instillata la sua venerazione per il coach. Senza di lui, gli allenamenti e la squadra, gli sarebbe toccato rimanere a casa e quello era il suo peggior incubo. Il coach lo sapeva e per questo ogni tanto lo puniva di più, per dargli la scusa di starsene al campetto anche fuori dall'orario stabilito, lontano da pugni e calci che spesso lasciavano cicatrici che negli spogliatoi facevi finta di non vedere.


Il resto della squadra non era molto convinto dell'idea del coach. Giocare con un negro non si faceva, per cui nessuno si mosse.


Il coach di fronte a questo ammutinamento, reagì nella maniera consueta. Iniziò a urlare ordini. E noi, come cani addestrati a obbedire senza ragionare, ci mettemmo in campo. La difesa e l'attacco si schierarono l'una contro l'altra. Per quanto mi riguarda, seguivo il gruppo. Avevo la testa piena di domande e non riuscivo nemmeno a organizzarle per tentare di dare una risposta. Tutto era assurdo. Nella formazione a T utilizzata di norma nei nostri schemi offensivi ero l'uomo in movimento. Il coach aveva chiamato uno schema di corsa. Quindi io stavo in campo solo per dimostrare di seguire le tracce e nulla più. La palla non mi sarebbe mai arrivata. Sarebbe stata data a Samuel e lui avrebbe corso nel mezzo aiutato da Danny Felp, il fullback, che gli avrebbe aperto la strada. Danny non era veloce, ma grosso il giusto e forte di più. Improvvisazione e talento zero, ma se gli dicevi di correre in una direzione, lui partiva non spostandosi di un millimetro dala traiettoria indicata, abbattendo nel contempo qualunque cosa avesse trovato sul cammino. Un fullback fatto e finito, insomma.


In pochi però si preoccupavano dello schema di gioco. Tutti erano focalizzati sul negro, il quale stava dietro la linea di difesa con gli occhi fissi sul pallone, in apparenza incurante del fatto che la maggior parte di noi gli avrebbe volentieri rotto le gambe. Il tipo era piuttosto alto e sembrava molto robusto. Molto più di noi a dirla tutta. Gli altri due linebackers stavano più esterni del solito. Con lui non volevano avere niente a che fare. L'azione iniziò e si vide subito che nessuno di noi si impegnava più di tanto. La linea difensiva non metteva alcuna pressione all'attacco. I giocatori si limitavano ad abbracciarsi facendo finta di lottare per prendere posizione. Io ero partito per la mia traccia, ma quella scena era troppo ridicola e, quindi, dopo qualche passo mi fermai a guardarla. Mi aspettavo di sentire il fischietto dell'allenatore seguito da una sequenza di imprecazioni che ci richiamasse all'ordine, ma non sentii nulla perché Jeremy era già scattato come una furia. Spostò letteralmente i giocatori davanti a lui mandandoli a terra, indifferente che fossero difensori o attaccanti, per lui erano solo birilli da spostare.


Dall'altra parte Danny partì per fargli male. Si vedeva che andava basso per cercare di colpirlo alle ginocchia e possibilmente romperle. Jeremy se ne accorse e con un movimento fluido e preciso ruotò su se stesso, mandando a vuoto Danny. Intanto la palla era arrivata a Samuel Cody Fellis che era partito dietro a Danny, trovandosi però al suo posto Jeremy il quale si produsse in un placcaggio da manuale. La spalla di Jeremy andò a colpire con precisione chirurgica il braccio con cui Samuel teneva il pallone. Il risultato fu che la palla venne persa. Jeremy la raccolse e si involò da solo in end-zone, mentre noi, i migliori, eravamo rimasti fermi impietriti.


Jeremy non festeggiò, ma si limitò a tornare dal coach consegnandogli il pallone recuperato. A far casino ci pensava Dwyght che insultava tutti i suoi compagni.


"Pezzi d'asino, come cazzo fate a giocare così? Sembrate delle ragazzine. Nessuno capace di placcare uno sporco negro? Siete una vergogna, cazzo."


L'allenatore ci richiamò tutti davanti a sé, Jeremy rimaneva accanto al coach, a buona distanza da noi. Le nostre facce erano chiare su cosa gli avremmo fatto se ci fosse stato possibile. Il coach si rivolse a Samuel.


"Fatti dieci giri di campo. Sono stufo di ripeterti che il pallone si protegge con entrambe le mani quando si corre nel mezzo."


Samuel provò una timida protesta. L'allenatore non lo lasciò parlare. "Se da qui alla fine dell'anno vuoi ancora giocare con questa manica di incapaci, mettiti a correre; in caso contrario, domani puoi pure fare a meno di presentarti. Ci siamo capiti?" Samuel iniziò a correre.


L'allenatore, quindi, si rivolse a tutti noi. "Ora Jeremy giocherà un'azione al posto di Samuel. La stessa azione di prima. Voglio una corsa interna.” Quindi, verso Dwyght. "Torna in campo."


Dwyght non se lo fece ripetere due volte e si infilò il casco.

L'uomo nero (prima parte)

Stamattina ero al bar sotto alla stazione televisiva, un locale tranquillo, costellato di acciaio lucido e fotografie di gente famosa. C'è persino una mia foto. Inizialmente era collocata vicino al bagno subito sotto a una di Mike Smrek, un panchinaro dei Lakers così sconosciuto che avevano pure dovuto aggiungere una targhetta per dire chi fosse. Dopo, a furia di frequentare il bar per spuntini, pranzi, cene e beveraggi abbondanti, il tutto accompagnato da ottime mance, ero stato spostato sopra al bancone. Non proprio in centro, perché quello era il posto riservato a Magic e Letterman, ma nemmeno in periferia.


Ero, dunque, intento a sorseggiarmi l'ennesimo caffè della giornata e ad addentare una bella ciambella annegata nella cioccolata. Mi stavo godendo la vita, insomma. A coronamento di tutto, il televisore a cristalli liquidi, posizionato sopra l'angolo sinistro del bancone, trasmetteva una mia intervista a Shawne Merriman, il linebacker dei San Diego Chargers. Incredibile a dirsi, dalle immagini sembravo interessato alle banalità dette in risposta alle mie domande. Il giorno in cui sarà detto qualcosa di veramente intelligente in televisione inizierò a guardare il calcio. Lo giuro. Nel complesso, però, l'intervista era andata bene. Merriman era riuscito ad esprimere al mondo il suo sincero attaccamento alla squadra e la sua volontà di sacrificarsi per il bene dei Chargers, evitando qualsiasi atteggiamento da primadonna. Il discorsetto standard del giocatore che ha appena rinnovato il contratto a cifre spropositatamente alte. La stessa intervista fatta un anno fa, si sarebbe risolta in un monologo sulle sue enormi capacità fisiche, le sue innate doti tecniche, su quanto fosse bravo e fondamentale nell'alchimia della squadra, sottintendendo, perché si fa capire, ma non si dice, che senza di lui i San Diego Chargers avrebbero fatto schifo e che quindi la dirigenza, se non era stupida, doveva offrirgli un contratto a cifre spropositatamente alte; contratto che lui con generosità si sarebbe degnato di accettare.


Per quanto mi riguarda, ero parso professionale e questo mi bastava. Decisi anche di acquistare un regalo per la mia truccatrice, Jessica, guardando il mio bel faccione sorridere all'ennesima idiozia del mio collega. Da quel che mi han detto i miei amici religiosi, i miracoli li fanno i puri di cuore. Per mia esperienza diretta Jessica non era molto pura, ma certo i miracoli li sapeva compiere. Ieri notte ero rotolato giù dal divano insieme a una bottiglia di Jack e al mio risveglio avevo l'aspetto di toro; appena finita la corrida. Sullo schermo, invece, sembravo appena tornato da una vacanza ai Caraibi.


Come detto l'intervista era andata bene, il mio collega, il quale di football ne capisce quanto io di uncinetto, non l'avrei rivisto per un'altra settimana e la seconda ciambella era più cioccolatosa della prima.


Non potevo sentirmi meglio. Poi arrivò l'idiozia e tutto fu rovinato.


Sono stufo di impegnarmi per nulla, lottare giorno dopo giorno per cambiare le cose e vedere ogni mio sforzo vanificato dall'imbecillità altrui. Mi domando perché mi do tanta pena. L'ignoranza e la stupidità permeano questo mondo e nessuno può sconfiggerle, certo non io.


“Merriman è il miglior linebacker di tutti i tempi.” Ma si può?


Puntualizzo subito a scanso di equivoci che questa non è un'opinione. Tra questa cazzata e un'opinione passa la stessa differenza che corre tra il mio culo e quello di Halle Berry.


Sebbene fossi di spalle rispetto all'anonimo autore della suddetta cazzata, l'avrei potuto descrivere senza bisogno di voltarmi. Il tipo era sempre lo stesso: un ragazzino appena entrato nella pubertà senza alcuna esperienza di football giocato e appassionatosi solo di recente al mio adoratissimo sport. Dato il nome del migliore da lui scelto, questo qui era pure del modello “salto sul carro dei vincitori.” Il peggiore di tutti. L'esponente classico di questa categoria sceglie immancabilmente la sua squadra tra quelle che negli ultimi cinque anni hanno vinto un Super Bowl o almeno un paio di titoli divisionali, e per lui il migliore di tutti i tempi, cascasse il mondo, è un giocatore di quella squadra. Se va in un'altra, certo come che ho un ginocchio fuori uso, il giocatore diventerà improvvisamente un brocco, indipendente dai suoi risultati. Non c'è scampo. Ulteriori, ma non esaustive, peculiarità di questo esecrabile essere umano: cambia idea sulla propria squadra a ogni partita disputata (se vince fortissima, se perde è tutto da cambiare); se arrivano due sconfitte di fila si disinteressa dei suoi ex beniamini salvo dopo due vittorie consecutive dire: “Sapevo si sarebbero ripresi anche se tutti li davano per finiti.”; infine, la sua stagione sul divano dura 16 partite solo se si arriva ai PO, se no guardano il basket.


Anche le squadre perdenti annoverano tra le loro fila di tifosi una pletora di decerebrati orgogliosi di millantare la loro conoscenza del football sputando sentenze sui migliori di tutti i tempi. Però, sono numericamente inferiori, non essendoci quelli che saltano sul carro dei vincitori, perchè il carro non c'è. Per gli stupidi incompetenti appartenenti a questa categoria, il migliore è sempre uno della loro franchigia, ma un giocatore del passato che spesso non hanno visto giocare se non in filmati d'epoca, quando esistono filmati di quell'epoca.


Se qualcuno si identificasse con le descrizioni appena compiute e si sentisse offeso, sappia che mi offendo di più io per la sua esistenza e, quindi, si tolga dalle palle.


Torno a rivolgermi a persone senzienti.


Partiamo da un dato certo e incontestabile: non esiste il migliore di tutti i tempi. Non date retta alle classifiche fatte proprio per quei tifosi ignoranti di cui sopra. Il vero tifoso sa che il gioco è cambiato negli anni, che gli aiuti ai giocatori sono cambiati, che i compagni, gli schemi e la fortuna, leggasi infortuni, decidono una carriera più del talento e della volontà e che non ci si può lasciare impressionare dall'ultima stagione a cui si è assistito, ma soprattutto sa che per tutte queste ragioni non esiste un criterio valido per paragonare giocatori di diverse epoche. Il giudizio è troppo soggettivo per avere una effettiva valenza. Non si riesce manco a decidere il migliore tra Brady e Manning, pensa te individuare il top dei top. E poi il minimo per sentirsi autorizzati a fare una classifica è aver visto giocare tutti i papabili e, a mia conoscenza, nessuno ha vissuto abbastanza. Infine, non si sa chi arriverà domani. Quindi, per un minimo di decenza si dovrebbe avere almeno il ritegno di dire: il migliore che ho avuto la fortuna di vedere, o almeno il migliore fino a oggi. Ma non è mai così. Si tratta sempre e solo del migliore di tutti i tempi. Ma tu che ne sai? Chi ti dice che un giocatore che non hai visto, o addirittura che non ha mai calcato il campo da professionista, non fosse migliore di quello che tu indichi?


Avrei dovuto accettare con gli anni che avendo il football così tanti appassionati qualche imbecille ci deve pur essere. Ma no, io sono testardo, spero sempre che a furia di parlarne la gente capisca. E poi: “Merriman è il migliore di tutti i tempi.” Come fa uno a non incazzarsi? Manco avesse detto Lawrence Taylor o Ted Hendricks, no, Merriman: l'ultimo arrivato.


La mia giornata era completamente rovinata.


Mi voltai, magari mi ero sbagliato e ad aver pronunciato quella spettacolare minchiata era stato Mike Ditka o Bill Belichick. E invece come al solito l'immenso conoscitore della psiche umana noto al mondo come Alvin Santisky aveva visto giusto: il cazzaro era proprio un ragazzino, il cui aspetto complessivo avvalorava fin nei più piccoli particolari quanto mi ero immaginato. Era in compagnia di un suo coetaneo a un tavolino vicino all'ingresso del locale. L'idiota parlava, meglio dire farneticava, e l'altro assentiva, il che la diceva lunga pure sulla sua di intelligenza. Non avevano più di quattordici anni. Notai che entrambi avevano un pass per entrare nella stazione televisiva. Il figlioletto che era andato a vedere dove lavorava il padre con un suo amico. Mi avvicinai all'idiota e gli rivolsi un tenero e affettuoso rimprovero.


“Sentimi, piccolo coglioncello, di football non ne capisci proprio un cazzo, quindi fa un favore a tutti e torna a depauperarti cerebralmente davanti alla Playstation perché mi sembra l'unica cosa che ti riesce bene.”


L'aver espresso pubblicamente una semplice e banale constatazione non mi fece sentire granché meglio. Andai al bancone, pagai il conto, in cui infilai altre quattro ciambelle al cioccolato e con esse tornai su nel mio ufficio. Appena arrivato, lì mi sedetti. Posizionai la scatola con le ciambelle nel mezzo della mia scrivania. Tirai fuori dal cassetto l'i-pod e selezionai il concerto degli ACDC del 1992 a Donington. Ciambella in mano, chiusi gli occhi e cercai conforto di fronte alla faciloneria di questo mondo nei ricordi. Non si trattava, però, dei miei ricordi: avevo preso in prestito quelli del mio vecchio allenatore del liceo, Jonathan Parker. Un prodotto del profondo sud che durante negli anni cinquanta aveva giocato qualche stagione con i Chicago Bears di George “Papa Bear” Halas, per poi finire a New York a fare l'allenatore al liceo, dove poi sarei andato io. Rimane una figura centrale della mia vita. Fu lui ad aiutarmi a convincere mio padre a permettermi di andare a UCLA, facendogli capire che suo figlio non sarebbe mai stato l'avvocato/medico/professore universitario che il professor Santisky aveva sognato. E quando avevo qualche problema a UCLA e anche da professionista chiamavo sempre lui e mio fratello. Mai mio padre. È ancora vivo, il vecchio coach. Ovviamente è in pensione con i suoi quasi 80 anni. Però, acciacchi a parte, la testa è ancora in gran forma e ogni tanto lo chiamo ancora per una chiacchierata. Eppure, dopo oltre trent'anni di conoscenza, ormai consolidatasi in amicizia, per me rimane sempre e solo il coach.


Quando ancora allenava, il coach, il giorno in cui si aprivano gli allenamenti, chiamava tutti i giocatori negli spogliatoi e raccontava loro una storia. Sempre la stessa. Un fatto realmente accaduto, di cui non andava fiero, ma è la mia storia preferita ed ha il potere di riconciliarmi con il mondo dopo aver sentito certe sanguinose cazzate.

Willy il coyote non lo prenderà mai a Bip Bip

Lo sport è magia che a volte esula da ogni realtà, ci sono momenti in cui si fa fatica a credere a quello che stiamo guardando o abbiamo appena visto. Ogni generazione ha i suoi momenti magici, momenti che però, per capirli a pieno, vanno vissuti, non rivisti o raccontati: io posso solo immaginare a cosa si possa aver provato a vedere in diretta il gol di Diego nei quarti con l' Inghilterra, quella serpentina che parte da metà campo, che dribbla anche le ombre dello Stadio Azteca, con i difensori che si lanciano vani a pelo d' erba; io posso solo immaginare cosa si potesse provare a vivere davanti alla tv quell' ultimo giro di Digione '79, con Villeneuve e Arnoux pronti a sfidarsi su ogni singolo centimetro d' asfalto; i miei ricordi sportivi partono dai primi anni '90 e di emozioni “in diretta” né ho vissute tante, gioie e dolori, ma alcune sono più speciali delle altre e tra queste alcune ce n' è una a cui tutt'oggi faccio fatica a credere, ce n' è una per me che non c' entra niente con la realtà, è pura magia: negli almanacchi è segnata come 1 Agosto 1996, ma per noi in Italia era già il 2, non da molto, qualche ora passata la mezzanotte, tutti i 5 continenti hanno gli occhi puntati sulla città di Atlanta che ospita le Olimpiadi del Centenario (o sarebbe meglio chiamarle le Olimpiadi della Coca-Cola derubate ad Atene, ma questa è un' altra storia.....).


Quella sera americana sulla pista d' atletica va in scena il record del mondo più sorprendente della storia dell'atletica e non solo: si corre la finale dei 200 metri: Mike Marsh, Jeff Williams, il cubano Ivan Garcia, Frankie Fredericks, Ato Boldon, Patrick Stevens, Obadele Thompson saranno spettatori più che privilegiati della corsa di Michael Johnson. Tra questi ci sono comunque storie che vale la pena raccontare: quella di Mike Marsh, per esempio, che a Barcellona92 aveva illuso il mondo di poter essere il primo uomo a battere il tempo di Mennea, nelle semifinali aveva corso in 19”73, un solo centesimo sopra il primato, e li aveva corsi rallentando gli ultimi 10-15 metri: una follia... perchè poi vinse sì la finale ma con un tempo nettamente superiore e mai più si avvicinò a quel 19”72, il suo treno era passato. Le storie di Fredericks e Boldon sono simili, molto simili, sono gli eterni secondi, quelli che in finale si sciolgono come neve al sole, che soffrono la pressione dell'evento (la storia ne è piena di personaggi come loro...li chiamano perdenti, dandone una accezione fin troppo negativa...).


Qui non faranno eccezione, rispettivamente secondo e terzo, anche se pare del tutto irreale pensare a un secondo posto con 19 secondi e 68 centesimi; poi c' è la promessa che “chissà cosa combinerà negli anni a venire”, il 20enne delle Isole Barbados, Obadele Thompson e c'è il classico velocista bianco (il belga Stevens) che in queste occasioni non manca mai, lui la sua finale l'ha già vinta e ancora non sa che sta entrando, anche lui, seppur di riflesso, nella storia dello sport. Prima della partenza l' emozione è tanta, non ci sono stati proclami di record o simili, però Michael Johnson vincendo diventerebbe il primo uomo a vincere 200 e 400 nella stessa Olimpiade (la Perec l'ha anticipato di qualche minuto nel campo femminile...); in più, pochi mesi prima, lo stesso texano aveva finalmente abbattuto il record di Pietro Mennea, durante i trials di qualificazione olimpici e solo qualche settimana prima aveva perso l' imbattibilità sul mezzo giro di pista a vantaggio di Fredericks: sarà una bella gara, pensi. E intanto aspetti.


Partono e non si capisce nulla... chi è davanti?! Sono i primi 100 metri fatti in curva che fanno da antipasto, stuzzicano l' appetito ma innervosiscono l' affamato che vuole il primo piatto, stai lì ad aspettare quella decina di secondi affinchè gli atleti arrivino sul rettilineo finale per capire chi sta vincendo, per capire come sarà il primo piatto: a metà rettilineo il dubbio non c' è più, Michael è davanti, pochi passi più in là e nella mente inizia a farsi strada un pensiero... non fai nemmeno in tempo a completarlo, quel pensiero, che ti ritrovi ad urlare anche tu nel bel mezzo della notte italiana, assieme al telecronista, assieme all' atleta stesso, incredulo tu quanto loro.



Quel pensiero che stava nascendo dentro la tua testa viene interrotto, cancellato da quello che leggi sulla TV: 19”32, diciannove secondi e trentadue centesimi. Non puoi crederci, nessuno ci può credere, nemmeno i muscoli di Johnson ci credono e infatti richiedono subito dopo l' arrivo un po' di ghiaccio. Quel diciannove e trentadue non è realtà, quel diciannove e trentadue è un cartone animato, lui è Bip Bip e tutto il resto del mondo in un attimo è diventato Willy il coyote. 4 decimi sotto a Mennea, 34 centesimi tolti in 200 metri al suo precedente limite, un' infinità, scompare Fredericks con il suo fantastico 19”68, scompare Boldon a soli 8 centesimi da un primato che aveva resistito per più di 2 decenni e che nel giro di 3 mesi era stato sbriciolato per ben 3 volte, scompare Donovan Bailey che per pochi giorni si era fregiato del titolo di uomo più veloce della terra, scompare tutto. Quell' urlo che hai cacciato fuori al suo arrivo è l' urlo che accomuna il telespettatore che vedeva Maradona serpeggiare e colpire al cuore l' Inghilterra, o quello che vedeva Villenueve prendere a sportellate Arnoux in quell' ultimo giro magico. È lo stesso urlo che proietta anche noi, semplice audience, nella storia dello sport.


Poi....ti diranno che i record si fanno per essere battuti, ti diranno che la leggenda vuole che un giorno anche Willy il coyote prenderà Bip Bip, io non ci credo alle leggende, quelle scarpette dorate (ora gelosamente custodite in un museo) non le prenderanno più.

lunedì 18 febbraio 2008

Uffseason, pleistescion e Danone

Per gli americani è la offseason, per noi, cui piace per incomprensibili motivi cambiare le letterine e dare nuovi significati alle parole straniere, è diventata la uffseason. Sì, avete indovinato, il Super Bowl più soddisfacente della storia per gli anti patrioti è già un ricordo, una stagione molto avvincente è volata via d’un soffio ed ora ci rimangono da fare due cose: a) vivacchiare in qualche modo facendo un conto alla rovescia che sa di manicomio; b) infilare il dischetto di Madden nella nostra pleistescion preferita, modificare tutte le formazioni con gli aggiornamenti dell’ultim’ora e mettere Zach Thomas, il nostro tipico linebacker con 90 di overall, in mezzo alla lista dei free agents, ricevendo dal nostro amico computerizzato un avviso di garanzia per tentativo di circonvenzione d’incapace, in quanto Thomas, forte com’è nel giochetto, dovrebbe essere impossibile da tagliare. In fondo, mica può andare ai Patriots pure lui, creando altri squilibri generati dal trasferimento di Moss di un anno fa. In fondo, quest’ultimo era successo davvero.

Senza divagare ulteriormente e sentendomi comunque un pochino più libero dagli impegni, visto che stagione finita perlomeno significa un po’ di vacanza dalla massa di articoli che non riesco a fare a meno di scrivere da settembre a febbraio (Perché ora cosa sto facendo? Quando mi renderò conto di avere un lavoro, tra le altre cose?) non riesco a non essere incazzato come una biscia.

Offseason dicevamo, il momento più bello per un tifoso dei Washington Redskins, perché lo scempio è finito, ed il cuore che sogna di vedere Chris Cooley con il Vince Lombardi Trophy stretto nel pugno può ricominciare a sognare ingenuamente fantasticando sulla prossima stagione, quando gli equilibri saranno diversi e la franchigia per cui lo sventurato suda sangue la domenica, dovendosi poi sorbire lunghe notti insonni per il rosicamento da mancata vittoria, ha quindi una possibilità in più dell’anno precedente. Questo perché il football è vario e divertente, e non vince mai la stessa squadra (cit.)

Perché incazzarsi tanto allora? E’ appena finito tutto, Dave, sogna un pochino no? L’anno prossimo vinceranno i tuoi indiani, come tutti gli anni. A marzo.

Ecco, di solito è questo che mi rende felice durante la uffseason, mi stendo sul divano, ascolto un po’ di musica e faccio finta che sia la colonna sonora del prossimo trionfo della squadra della Capitale (occhio a non confonderla con la Magggica), attendo con trepidazione la voluttuosa lista di free agents che Dan “Santa Claus” Snyder si accinge a portarmi, ed una volta fatte tutte le firme, sorvolando accuratamente sui valori dei signing bonus per non sentirmi dire ancora da Modano che siamo ridicoli, grazie al progresso del multimedia mi guardo le conferenze stampa introduttive. Tutti con sorrisi a 32 denti, che parlano illuminati dai sempre presenti tre trofei vinti ai bei tempi opportunamente sistemati accanto ai microfoni, che rispondono alla stampa dicendo sempre la stessa cosa, sono contento di essere qui, lo stadio è una figata, giocare per i Redskins è un onore vista la grande tradizione vincente della franchigia. Avendo appena firmato un contratto che vale il triplo di quello che valgono questi signori, non c’è motivo per essere scontenti da parte loro.

Inizia il mini-camp, arriva il draft, sul quale c’è sempre poco da dire perché le scelte più alte le scialacquiamo perennemente in cambio di contratti onerosi e fallimenti degni della SFL (la Shitty Football League, nella quale Brandon Lloyd non sfigurerebbe affatto) e poi il training camp, il fattore che più degli altri mi fa accostare i Redskins al calcio italiano, perché se esiste una Villar Perosa o una Pinetina, esiste anche un Redskins Park, attrezzato con mille meraviglie al fine di far vomitare dalla stanchezza il maggior numero di giocatori possibili. Altro che il fresco di Vipiteno, se non ci sono 40 gradi (che ora non ricordo a quanti gradi americani corrispondano) gli allenatori non godono nemmeno.

Bene direte voi. Bene un cazzo, dico io.

La uffseason di quest’anno non sarà fatta di sogni e dolci attese, meglio non iniziare nemmeno a sognare quest’anno.

Capisco che nonno Joe fosse stanco di fare il fossile sulle sidelines, ma capisco anche che uno spiraglio di luce (leggasi due e dico DUE qualificazioni ai playoffs dopo secoli di dolore) si era visto durante il suo operato. Tuttavia, capisco anche che il suo modo di allenare fosse quantomai anacronistico, di certo lui non guardava le immagini degli avversari su blue-ray in hd come fanno oramai tutti, forse era rimasto alla cara vecchia vhs. Aveva rievocato la old school, riesumato una carriera persino per Joe Bugel dandogli ancora una volta il compito di allenare la linea offensiva come ai tempi dei tre anelli, dimenticandosi forse che i cinque hogs, nel frattempo, avevano trovato qualcosa di meno doloroso dal punto di vista fisico che non giocare a football dopo una certa età.

Aveva pensato di giocare la power running, dimenticandosi anche del sopravvenuto ritiro dell’hog onorario per eccellenza, John Riggins, ora in altre faccende affaccendato, assegnando a Clinton Portis (che sta a Riggins come) l’ingrato compito di fallire nel riportare in auge uno schema non adattabile al personale presente a roster. Anzi, c’era qualcuno di adatto c’era, ma il TJ Duckett scambiato per una prima scelta era stato dimenticato anche lui, mettendo piede in campo in situazioni del tutto sporadiche. Ahhh, que managemento direbbe uno spagnolo ubriaco…

Nonno Joe torna dunque in pensione e lascia il trono vacante. Fantasie morbose da offseason stanno per cominciare, i battiti aumentano, aspetto di vedere Snyder immortalato sulla prima pagina del Washington Post con la mano di Bill Cowher stretta alla sua. O quella di Brain Billick. Vabbè, ammetto di essere riuscito ad immaginarmi anche quella di Steve Mariucci, ma non mi veniva lo stesso entusiasmo.

Passano i giorni, e Snyder intervista 64 candidati, Gregg Williams potrebbe essere quello giusto perché ha fatto quattro incontri con il padrone, e la sua dedizione al coordinamento della difesa, penso, gli avrà garantito di diventare the 27th head coach of the glorious Washington Redskins.

Poi penso ai tempi di Buffalo, e dico che forse è meglio che arrivi qualcun altro. Si parla di Steve Spagnuolo, che nel frattempo sta furoreggiando con la difesa dei Giants, ci spero tanto ma poi penso che 1) che cacchio ce ne facciamo di due coordinatori della difesa e 2) il mio amico Fillo (Carpi is football town) non mi rivolgerà più la parola. Se la seconda ipotesi era aggiustabile con una birretta ed una pacca sulla spalla, la prima suggeriva disastri.

Nessun timore, lo Snyderone nazionale arriva con il suo classico colpo di spugna totale, manco fosse una fatality di Mortal Kombat, e nel giro di mezzo secondo fa magicamente sparire Williams, Gregg e Saunders, Al. La mia mente va subito ad un altro amico, Roberto, (once again, Carpi is football town) e lo penso già ubriaco e festante alla notizia del licenziamento dell’offensive coordinator più prevedibile e cocciuto che ci sia mai capitato tra le mani. Poi penso che quello che ci aveva dato una grande difesa in due degli ultimi tre anni è stato fatto fuori senza troppi complimenti, ed andrà a far felice qualcun altro.

Se la scelta per la difesa, Greg Blatche, mi lascia perplesso, mi sento meglio alla notizia della nomina del sostituto di Saunders: Jim Zorn, storico quarterback dei Seattle Seahawks e loro qb coach, aveva fatto miracoli su Matt Hasselbeck e lavorato sotto Mike Holmgren, un curriculum vitae niente male. Penso all’effetto che avrebbe potuto fare su un giovane ancora plasmabile come Jasone Campbell, che un giorno desidero di vedere immortalato in stile Doug Williams.

Poi la bomba atomica, e la offseason felice finisce qui. Chissenefrega dei free agents che prenderemo, who cares delle scelte al draft che forse quest’anno potremo utilizzare in toto, chi ha voglia di guardare il training camp su Redskins Tv quando per noi italiani sarà ora di andare in ferie e mia moglie comincerà a dire “Ma è luglio tesoro, cominciamo già con il football?”.

Snyder sfodera la mossa del secolo, George Preston Marshall e Jack Kent Cooke non sono più all’interno delle rispettive tombe: Washington diventa il teatro di scene alla Resident Evil, e li zombie dei passati proprietari (che farebbero meglio di Snyder pure da non-morti) non vedono l’ora di trovare l’occhialuto con la faccia da secchione e portarlo con loro nel livello più basso degli inferi. Jim Zorn, qualche giorno prima assunto per ricoprire il ruolo di coordinatore dell’attacco, è il 27th head coach of the (no more) glorious Washington Redskins.

Ecco perché mi sembra inutile anche solo cominciare a nutrire delle speranze per la prossima stagione, a meno che non salti domattina l’accordo collettivo tra lega e sindacato dei giocatori cancellando per sempre (oltre al Pro Bowl) il salary cap, permettendo a Danone (ottimo soprannome Dan, in fondo mi fai lo stesso effetto dello yogurt, burp) di spendere e spandere senza limiti e comprare Randy Moss, Chad Johnson ed Adrian Peterson tutti insieme.

Ecco perché stavolta non posso mettermi sul divano con la musica e sognare ad occhi aperti, perché con un head coach al primo anno, privo di esperienza di offensive coordinator e che prima d’ora era stato un allenatore limitato ad occuparsi di un solo ruolo, fattore da abbinare alle carenze offensive di cui da anni si soffre in città, meglio non farsi illusioni. Meglio prendere Zach Thomas dalla lista dei free agents e metterlo a Washington, ripetendo l’operazione con tanti altri giocatori forti. Perché l’unico titolo che Chris Cooley potrà dire di aver vinto, per lunghi e lunghi anni, sarà quello della cara e beneamata pleistescion.

P.S: un ringraziamento speciale ad Alessandro Santini (Carpi is football town, again and again) per averci dato la notizia dello sbarco di Nasn in Italia. Almeno potrò tornare a vedere i Los Angeles Dodgers e gli Anaheim Ducks. Magari qualcosa di buono verrà fuori da lì, visto che almeno nella Nhl sono pur sempre io il campione in carica. E non è un sogno di fine febbraio.

domenica 17 febbraio 2008

Daytona dal divano.

Finalmente ci siamo, si ricomincia a correre. L’altro giorno stavo pensando che gli appassionati degli altri sport americani come il football o il baseball, e quindi parlo anche di me stesso, potrebbero allegramente insultarmi per un inizio cosi’. Gia’ perché la NASCAR, acronimo che indica la categoria automobilistica piu’ popolare degli US, ha una offseason di soli due mesi, gli invernali dicembre e gennaio. Poi appunto si ricomincia di nuovo. Nulla in pratica rispetto ai sette mesi senza football o ai cinque senza baseball. Ma l’attesa sul divano si fa via via sempre piu’ frenetica per un motivo preciso: Daytona.

Negli altri sport i giocatori vogliono vincere il Super Bowl o le World Series oppure la Stanley Cup di hockey. Questi trofei rappresentano il sogno che ogni atleta di quegli sport desidera piu’ di ogni altra cosa. E soprattutto rappresentano la vittoria di un campionato. In uno sport motoristico come le stock car vincere un campionato è una questione lunga e non ha la stessa adrenalina che puo’ avere il touchdown di Burress a 35 secondi dalla fine, o magari un fuoricampo in gara 7 di World Series o un goal in overtime nella settima di Stanley Cup. La Daytona 500 è il vero Super Bowl delle auto.



Si sprecano ovviamente i pronostici su chi vincera’ la Grande Corsa Americana. Quest’anno la NASCAR Nation ha la possibilita’ di fare davvero festa grande. Il loro beniamino Dale Earnhardt Jr. è passato a guidare una delle macchine piu’ forti del lotto. Farebbe festa anche la NASCAR stessa. Un Dale Jr. di nuovo vincente farebbe schizzare gli ascolti tv alle stelle, visto che il dominio di Jimmie Johnson ha mandato un po’ in crisi gli indici e fatto un po’ sonnecchiare il popolo dei motori a stelle e strisce.

Ma con l’arrivo di Daytona ci si risveglia prontamente dal letargo. E non serve neppure aspettare la corsa. Ci pensano il sempre piu’ grasso Tony Stewart e il fratellone maggiore dei Busch, Kurt a farci divertire. Durante le prove libere Busch davanti finisce a muro, forse per un leggero tocco di Tony che gli stava incollato. Sul rettilineo successivo, all’ingresso della corsia box, fratello maggiore rifila tre sportellate al buon Tony, rifacendogli la fiancata della sua Toyota. Il buon Tony gli assesta poi un destro dietro le quinte nei garage. Cosi’ dice Radio Paddock. I due avevano gia’ dimostrato la loro solida amicizia nella 500 dello scorso anno.Che divertimento!

Dalle parti del Canada avrebbero potuto avere due ottimi motivi per sintonizzarsi sulla pista della Florida e seguire i 43 matti che si rincorrono lungo l’ovale. Ma Jacques Villeneuve e Patrick Carpentier non sono riusciti ad arrivare al grande evento. Il figlio del grande Gilles, ha perso il controllo della sua macchina come l’ultimo dei rookie, trascinando a muro anche l’incolpevole Stanton Barrett, stuntman di professione e pilota a tempo perso che cercava di raggiungere un sogno, mentre invece dalla faccia, una volta sceso dalla vettura, il ricco e campione di F1 Jacques sembrava avesse semplicemente perso una mano di briscola. La prossima volta va’. A Carpentier è esplosa una gomma a tre giri dalla fine della sua manche di qualificazione e tanti saluti. Oh Canada.

Il gringo colombiano, alias Juan Montoya, è passato quasi in incognito questa settimana, per uno della sua fama. Attenzione potrebbe anche centrare il malloppo grosso. E a Daytona si parla di un milione e mezzo di ex presidenti sonanti. So che nessuno arrivera’ mai sin qui a leggere, il fatto di vedere le auto girare sun un ovale annoia ai piu’. Provate per un istante a immaginarvi a un centimetro dal paraurti di chi vi precede, con un’altra macchina attaccata al vostro. A oltre 300 all’ora costantemente, non a passo d’uomo incolonnati in autostrada. E guardate che l’asfalto di Daytona non è un tavolo da biliardo come ci appare in televisione, tutt’altro. Gia’ la TV. La cara SKY quest’anno ci lascia all’acqua pare. Ieri guardavo la guida elettronica, quel cazzo di giornaletto, di cui hanno anche aumentato il prezzo tra l’altro, il nulla. Finisco con una dritta. Scommettete su Junior. Vincera’ lui. E l’America due settimane dopo aver festeggiato la caduta degli dei, festeggiera’ il suo idolo preferito.

giovedì 14 febbraio 2008

SFOGO

Son tre mesi che mi chiedo cosa cazzo scrivere. La conclusione di tanto cogitare? Che non so cosa cazzo scrivere. Ebbene sì. Mentre tutti voi avete dimostrato fantastiche capacità di scrittura e una fantasia inesauribile, io son rimasto al palo. E ci sto male. Ma che ci posso fare, se proprio non ho nulla da scrivere?

Peccato, nessuno ci creda. Maddai tu che scrivi romanzi non puoi non avere idee per quattro righe. Se non lo fai è perché te la tiri. Il grande scrittore mica si abbassa a scrivere di sport in un blog amatoriale, bello stronzo (quest'ultimo concetto nessuno l'ha condiviso con me, ma qualcuno l'ha pensato di sicuro).


Il problema è che alcune idee ce le avevo pure, ma son sempre arrivato lungo. Invariabilmente qualcuno mi aveva preceduto. Che fosse un alcolizzato tifoso dei cowboys o un alcolizzato tifoso dei bills o persino un tifoso dell'hockey, il quale, sorprendente a dirsi, non è alcolizzato, ma per seguire l'hockey è già fuori di suo, c'era sempre qualcuno che postava quello che avrei voluto scrivere. E tanto per rigirare il coltello nella piaga, si esprimeva molto meglio di quanto avrei mai potuto fare io. e vaffanculo va.


Non so scrivere. Questo è un dogma assoluto, instillatomi in anni e anni di infelici risultati nella scuola dell'obbligo, certificato dalle più brillanti insegnati di medie ginnasio e liceo che uno studente può avere a spese dello stato italiano. Se poi mi si fregano anche le idee che mi rimane? Nulla. Ovvio che in tre mesi non abbia ancora scritto niente.


In compenso son diventato l'ultimo degli ultimi. Quello che non ha mai scritto una singola riga sul blog. Mentre quest'ultimo cresce, prende respiro e si impone nella rete per merito di aza, che ci ha messo il cuore e di China, Teo, il Russo, Dave, Angy, Zabry, Gavo e persino il becero veronese dalle mille colleghe, che ci han messo l'anima con sempre nuovi, divertenti, piacevoli e intelligenti articoli.


E io?


Io sto ai margini di tutto questo, senza essere in grado di dare il mio contributo per lampanti incapacità tecniche (l'ho detto che non so scrivere e non ho idee?), ridotto a postare stupidi commentini che nessuno legge, se non per pietà. Nel guardare questo meraviglioso blog, mi sento come l'ultima ruota di scorta, utilizzata dopo due chilometri di tentativi di proseguire su tre ruote. Insomma sono il settimo nano, quello che non ti ricordi mai, perché te ne vengono in mente sempre e unicamente sei. E poi che cazzo di nome è gongolo? Ma sopratutto che cazzo gongoli che sei un nano?

Lo confesso, senza vergogna, ma con molto dispiacere, in questo blog sono ormai il giocatore in fondo alla panchina, tanto per adeguare la mia similitudine all'ambiente sportivo trattato qui. Quello che quando fai l'elenco dei componenti della tua squadra del cuore rimane sempre lì sulla punta della lingua e che, quando tutti esultano per il titolo in mezzo al campo, lui viene bloccato dai servizi d'ordine e gli viene chiesto di esibire il suo pass. Ma io gioco con loro. No, non cerco di darvela a bere; io gioco veramente con loro. Ehi aza, ehi China, le dico che li conosco. Ehi Teo, Angy diteglielo voi che ci sono anche io. Poi alla fine riesci a entrare. Ti unisci ai festeggiamenti, ma nelle riprese televisive sei quello metà tagliato all'angolo sinistro dello schermo e nessuno ti chiede come ci si senta a essere i migliori, a vincere il titolo, tanto tu non hai fatto niente per vincerlo solo girare il panno sulla panchina.


In conclusione sono una specie di Mike Smrek, perché, diciamolo, chi cazzo si ricorda di Mike Smrek? Ha vinto due titoli, giocando (si fa per dire) con Magic, Jabbar, Worthy, Cooper, Scott ed A. C.Green. Stiamo parlando dei massimi interpreti dello show time, la più bella rappresentazione in terra del basket tutto velocità, tocco ed eleganza- non credete a chi cita i bulls, questi erano meglio – e quanti si ricordano di Smrek? Nessuno. E come potrebbe essere altrimenti? Solo scampoli di gioco in assoluto garbage time per lui, usato pochissimo che non facesse danni, ma, soprattutto, che non rovinasse quella sinfonia di leggiadria e potenza che erano quei Lakers. Tanto anonimo - una pausa di nulla tra un'invenzione di Earvin Magic Johnson e un armonioso arcobaleno di Kareem - che pure io sono dovuto andare a cercarlo, manco fosse Gongolo. Ma che ci volete fare, tre mesi e nessuna idea è ovvio che non sappia manco il nome della riserva, della riserva, della riserva di Jabbar.


E come Smrek e il sottoscritto ce ne sono infiniti. Per avvalorare la mia tesi non ricorro al football americano, sarebbe troppo facile. È lo sport degli sconosciuti per eccellenza. Lì manco l'allenatore, sa i nome di tutti i suoi giocatori. Ma veramente credete che i dodici assistenti di cui si circonda, lo aiutino con le strategie di gioco? Illusi! Servono a suggerirgli i nomi di quei bestioni che allena.


Non ricorro nemmeno al ciclismo. Lo sport dei gregari, di quelli nominati per due metri e presto dimenticati alla prima salita, perchè lì il gregario è un ruolo di onore e di prestigio. Nessuno sa il tuo nome, ma al bar eh certo se non ci fossero i compagni che l'aiutano... forte è forte, ma ha un gregario quello basso con il nome toscano che gli tira le volate alla grande.


No, no io e Smrek e gli altri siamo diversi siamo quelli che stanno dietro al gregario e belli staccati. Siamo gli avversari di Mohamed Alì, non certo Foreman o Frazier, ma nemmeno un Liston bollito a fine carriera e pagato dalla mafia, noi siamo i vitelli sacrificati sull'altare del futuro campione, i Jimmy Robinson, quelli che si allacciano le scarpe, salgono sul ring stringono la mano a quel ragazzino che parla sempre e finiscono dritti nel tempo necessario allo speaker per pronunciare il loro nome. Un round, 1minuto e trentaquattro secondi in cui siamo pestati di brutto, perché quel ragazzino alto con le braccia lunghe non sta mai fermo e picchia più velocemente di quanto parla, 94 secondi di cui nessuno si ricorda se non wikipedia, ma senza farci la voce personale perchè siamo ormai solo un nome dimenticato.


E che dire di Jack Andrew? E chi cazz'è Jack Andrew replicherete voi. Si tratta di una delle persone più misconosciute della storia dello sport. Avete presente il perdente per eccellenza quello che non è in classifica eppure tutti si ricordano di lui? Quello che adesso per un anno verrà nominato ogni giorno? Esatto il carpigiano Dorando Pietri che poi carpigiano non era, ma la sua è una storia di errori per cui perché formalizzarci su uno? Bene, richiamate l'immagine di Pietri che viene sorretto per superare il traguardo. C'è un uomo alla sua destra; un giudice di gara con megafono in mano e due baffi che ti ricordano una Atala.

Per molti si tratta di Sir Arthur Conan Doyle, il leggendario scrittore creatore di Sherlock Holmes, che aiuta l'atleta sfinito e, quando questo sarà escluso dall'ordine di arrivo, perorerà la sua causa aprendo una sottoscrizione per lui. Ecco dimenticatevelo. È una balla, una leggenda urbana senza fondamento. Quello con il megafono è Jack Andrew, il dimenticato che è parte essenziale della leggenda di quella maratona, l'uomo che aiutò un suo simile ormai stremato ad arrivare al traguardo. Senza Andrew, Pietri sarebbe finito semplicemente in ospedale, perdendo oltre alla medaglia d'oro anche un bel pezzo della sua leggenda. Ma anche quest'anno il povero giudice non solo sarà ingnorato, ma, per massimo dileggio, sarà pure sostituito nella ricostruzione di quel giorno da un baronetto, già famosissimo di suo, che non ha nessuna necessità di avere anche quel riconoscimento. Un eroinomane certo di passare alla storia per un pallosissimo studio sui boeri, vergato in volumi grossi come i capitello di San Pietro, e, invece, divenuto immortale per un personaggio rubato ad un alcolizzato americano morto 50 anni prima.


Ma che ci volete fare i settimi nani esistono per questo. Nessuno se li ricorda, ma la storia senza di loro sarebbe stata diversa. Ma ve lo immaginate voi Biancaneve e i sei nani? No, e allora siate generosi e sforzatevi di ricordare anche noi dimenticati, perché non abbiamo il talento dei grandi che ci stanno vicini, e viver di luce riflessa è la nostra unica consolazione.


Scusate il lungo e noioso monologo ma son tre mesi che non so cosa cazzo scrivere in questo blog, chissà come fanno gli altri a parlare di sport in maniera originale...