lunedì 3 marzo 2008

The All Stars Circus (R.I.P. All Stars Game)

Le quattro maggiori discipline sportive americane hanno diversi minimi comuni denominatori quali la distribuzione delle squadre in due Conferences, est ed ovest, un sub-raggruppamento divisionale che tiene legate le franchigie a seconda della loro ubicazione, tracciando sulla cartina geografica delle ideali linee di separazione tra le une e le altre, ed un sistema a playoffs per determinare la vincitrice, chi al meglio delle cinque o sette partite, chi con eliminazione diretta.

Uno dei fattori che più degli altri accomuna le magnifiche quattro, nonché tradizione di puro stampo a stelle e strisce, è la presenza in calendario del noto All-Stars Game (Pro Bowl, per la Nfl) quale avvenimento atto a raggruppare sotto le stesso tetto tutti i maggiori protagonisti dei vari campionati, opportunamente suddivisi tra Eastern e Western Conference per darsi battaglia in una serata diversa dalle altre.

Mentre il football, per comprensibili motivi anti-infortunistici, celebra la sua parata solamente una volta decretato il proprio campione, in altri lidi il ritrovo All-Stars è una gradita (per gli atleti non coinvolti) pausa di mezza stagione, e soprattutto un’ingente macchina da introiti per le casse delle leghe, le quali ingurgitano dollari dal merchandising studiato appositamente per l’evento abbinandovi ricchi contratti esclusivi che le emittenti televisive fanno loro siglare.

L’All Stars Game della Nba è l’evento che più degli altri attira l’attenzione del mondo di fuori, d’altra parte il basket è genericamente più conosciuto e praticato di football, hockey e baseball: partito come “semplice” partita delle stelle, l’evento si è arricchito strada facendo di divertenti esibizioni individuali come lo slam dunk contest ed il 3 point shootout, sempre preceduti da un confronto tra vecchie glorie non facente parte degli elementi mandati in onda.

Quest’ultimo avvenimento ha poi lasciato il posto ad un maggiormente spettacoloso scontro ideato tra rookies e sophomores, pensato per dare uno spettacolo atletico e dinamico in più al pubblico e per permettere ai giovani che per ovvie ragioni di merito non potevano partecipare alla partita dei grandi di avere le proprie due ore di notorietà, a vantaggio specialmente di quegli atleti appartenenti a squadre perdenti e quindi non presenti tra i palinsesti nazionali.

Un tempo consolidato prodotto di punta della Nba a livello tecnico (a livello mediatico i risultati sono tuttora inalterati ed ottimi), per la contemporanea presenza sul parquet di assi quali Micheal Jordan, Charles Barkley, Larry Bird, Magic Johnson e chi più ne ha più ne metta, oggi è curioso che dai piani alti della Nba non si siano ancora accorti della scemante qualità di esso, data la metamorfosi da partita a circo itinerante, dove difendere è divieto e divertire viene ad ogni costo prima dell’onore.

Non giova che alla pur sempre spettacolare gara delle schiacciate ed all’ indiscusso fascino della competizione del tiro da tre punti, vero e proprio showcase di tecnica, siano state aggiunte delle inutilità come le mattonate da metà campo dello Shooting Stars, e della tremenda noia battezzata Skills Challenge, che ogni anno richiama nomi di assoluto grido ma denota sempre più evidenti tracce di svogliatezza da parte dei partecipanti. Il fatto che il pubblico lo noti da casa, fossimo noi David Stern, ci preoccuperebbe assai.

Tali preoccupazioni sono più che fondate se poi pensiamo alla già citata gara tra giocatori al primo ed al secondo anno, oggi di qualità infima se paragonata alle prime edizioni (la prima, stupenda, risale al 1994), diventata più una gara di slam ball che una vera partita di basket.

A New Orleans, sede opportunamente scelta nell’immediato post-Katrina, si sono viste cose belle e brutte, lo spettacolo è sempre tanto, ma per recuperare un po’ di dignità c’è del lavoro da fare.

Tra le positività è emersa la prestazione di Daniel “Boobie” Gibson, guardia scelta al secondo giro di un anno fa dai Cleveland Cavs, capace di accaparrarsi il premio di Mvp del rookies vs sophomores con 33 punti, sorprendendo non tanto per la quantità di canestri ma per le modalità scelte dall’ex Texas, a segno solo ed esclusivamente da oltre l’arco dei tre punti senza tentare né tiri da due né tiri liberi.
La prestazione di Gibson potrebbe essere un segnale importante, che noi abbiamo interpretato quale virtuale richiesta di far tornare queste partite, appunto, delle partite, e non degli sciommiottamenti degni di un qualsiasi saltimbanco da strada, delle gare da strada tra ballerz che si levano dal canestro invitando l’avversario a devastare il canestro per farsi bello, o intimando al difensore di levarsi dalle scatole solo perché il suo nome è Melo o LeBron, non a caso protagonisti, nel 2004, del peggior All-Stars Friday di qualsiasi epoca.

Di gare delle schiacciate ne abbiamo viste parecchie, ed eravamo convinti che non vi fosse davvero più nulla da inventare: Vince Carter e la sua leggendaria prestazione di Oakland avevano chiuso ogni discorso, “It’s over”, proprio come aveva detto lo stesso Vince dopo una delle sue fantascientifiche conclusioni di quella serata californiana.

Segnali di vita della competizione, messa nello scatolone per qualche anno e rinverdita di recente, erano già arrivati un anno fa a Las Vegas grazie alla creatività di Dwight Howard (sì, il mitico adesivo), protagonista di una guerra di fantasia intrapresa contro Gerald Green proseguita alla New Orleans Arena.

Il colosso di Orlando stavolta ha sciorinato nientemeno che il mantello da Superman, manifesto dell’intero evento, ha dato prova di grande atletismo rapportato alla statura pur rischiando la decapitazione contro il plexiglas, prendendo persino la palla (quella vera) da un canestrino-giocattolo e schiacciandola violentemente al volo. Green, alla fine sconfitto, ha davvero stupito spegnendo una candelina accesa su un dolcetto apposto alla base del ferro, inventandosi in seguito di schiacciare senza scarpe. Almeno qui, chi dava per finita la possibilità di stupire con qualcosa di nuovo, s’è dovuto rimangiare tutto.

Rimasto intatto il fascino di osservare le meccaniche dei tiratori dalla distanza, siamo passati con discreto entusiasmo al main event domenicale, il quale spirito si è purtroppo riconfermato tutt’altro che competitivo.

Lasciando perdere la demenza del creatore delle maglie bicolor, confusionarie anche per chi guardava dal vivo, sono stati quaranta, diconsi quaranta minuti di agonia sportiva, privi di qualsiasi idea di difesa e colmi di poderosi viaggi sopra il ferro senza ostacoli davanti, contropiedi quattro contro due, prodezze esclusivamente individuali (certo, gli assist di Jason Kidd si fanno sempre guardare) e numeri circensi con l’unico intento di provocare uno stupore oramai troppo forzato. Non fosse stato per la pulizia dei canestri di Ray Allen (per la quale siamo sempre grati) e per l’educazione di un futuro campione come Brandon Roy nell’interpretare la partita con lo spirito giusto (18 punti e 9 rimbalzi in rispettosa punta dei piedi) la visione di tale scempio cestistico si sarebbe interrotta prima del dovuto.

Certo, gli ultimi sette minuti disputati sono valsi probabilmente l’intero prezzo del biglietto, visto che la posta in gioco si è alzata ed un minimo di orgoglio, forse, si è destato nelle membra dei giocatori, certo è che la sana rivalità che troneggiava in passato, dove l’evitare l’onta della sconfitta contava di più del rammarico di aver saltato qualche giorno di vacanza (pagato eh, intendiamoci), non esiste più.

Nelle passate edizioni (quelle pre James, Anthony, Bosh, Wade & company) lo spettacolo comunque non mancava, Magic Johnson distribuiva no looks più volentieri lì che in regular season, ma il sopraffino pick’n’roll di Stockton e Malone spadroneggiava, Sir Michael Jordan, (che la nomea di grandissimo l’ha sudata) data la sua estrema natura competitiva, ne faceva una questione personale anche di una semplice esibizione, scherzava con i suoi avversari (che battaglie con Sir Charles…) come da copione della manifestazione, ma se c’era da sederli a terra con una finta e tornare in difesa guardandoli male di certo non si faceva problemi. I vari Robinson, Olajuwon ed Ewing lasciavano passare pochino e tendevano a stoppare, altro che slam dunk da poster in campo aperto a favore del pivello di turno. Più di recente, persino superstars della nuova generazione (Kevin Garnett, Tim Duncan, Penny Hardaway, Grant Hill) avevano dato spettacolo per il solo di vestire la stessa maglia per una sera, senza per questo sentire l’estrema necessità di far rumoreggiare il pubblico schiacciando un alley-oop al volo.

Se qualche giovanotto tentava di fare il furbo, leggasi mettere il piede oltre l’ideale linea tracciata dai veterani, erano cavoli amari, i senatori erano i senatori. A New York, nel 1998, un giovane Bryant fece cenno alla power forward più forte di tutti i tempi di togliersi di mezzo, Kobe voleva l’uno contro uno in isolamento ed il blocco di un certo King Karl gli era d’impiccio. Quando Bryant andò in panchina, non la lasciò più, perché anche tra gli All Stars vigevano leggi non scritte. Anni dopo Jason Richardson schiaccerà dopo aver fatto carambolare il pallone sulla testa di Carlos Boozer: l’avesse fatta a Malone una cosa del genere, J-Rich avrebbe sicuramente qualche dente in meno. L’avesse fatta a Charles Oakley o ad Anthony Mason, fiere guardie del corpo di una New York che da troppo è assente dai piani alti del basket, forse sarebbe sei piedi sottoterra.

D'altronde l’epoca che stiamo attraversando oggi è quella dei bambinoni troppo cresciuti, pieni di pubblicità, ostentazione, catenoni e sensazioni di onnipotenza, la gavetta per arrivare non esiste più, i media ti pompano così tanto che la situazione si è rovesciata: dall’alto si parte già, l’unico rischio è quello di ritrovarsi troppo presto con il culetto per terra.

Il giorno in cui questa nuova stirpe di immenso talento deciderà di maturare, fermo restando che essa comprende un Hall Of Famer di nemmeno 25 anni, sarà il giorno in cui il basket americano smetterà di collezionare figuracce con quello che si vuol far credere sia ancora il Dream Team, magari qualche ragazzo deciderà di aspettare un anno in più per fare il salto dal college alla Nba per dare una possibilità in più alla sua crescita tecnica, anteponendola alla crescita del suo conto in banca.

Quel giorno, i giovani di oggi saranno nel frattempo diventati veterani, e pretenderanno quel rispetto che essi stessi non hanno mai dato. Quel giorno magari smetteremo di vedere una gara delle schiacciate che dura dal venerdì alla domenica. E la partita delle stelle sarà di nuovo una partita.

3 commenti:

therussianrocket ha detto...

concordo, l'all star game fa schifo. Gia detto tutto di quello della nhl, quello nba come hai detto ha fatto pena sin dall'inizio per l'accordo cromatico a dir poco imbarazzante, (spero almeno si torni alle vecchie maglie delle squadre bianche/ colorate) e la partita a parte 4 o 5 minuti nell'ultmo periodo è stata orribile. ma ci sono delle cifre sugli introiti delle varie leghe post all star weekend?

angyair ha detto...

Forse ci sei andato giù pure leggero....

azazel ha detto...

io a sto punto terrei solo le robe collaterali, tipo gara da 3 e schiacciate che almeno si vede sempre qualcosa di "spettacolare", la partita non può essere "spettacolare" se no si rischia la pagliacciata