sabato 12 gennaio 2008

Figli di un football minore

Dicono che il destino abbia già chiaro il percorso delle nostre vite, le quali vengono indirizzate in una piuttosto che un’altra direzione a seconda delle scelte che facciamo, delle decisioni che prendiamo. Altre cose sono scritte e rimangono scritte, no matter what. Si nasce con qualcosa dentro, si cerca di capire cos’è e si prova a svilupparlo. Se piace, lo si coltiva con dedizione e passione. Se non piace, basta metterlo da una parte.

Crescendo, non ho mai saputo resistere all’attrazione della cultura americana, ho capito che è un qualcosa con cui sono nato e con cui ero probabilmente destinato a convivere. Mi sono chiesto come mai il buon Dio non mi avesse anche messo al posto giusto, facendomi crescere in Texas mangiando bistecche a volontà, e facendo quella vita collegiale che avevo conosciuto attraverso fuorvianti produzioni televisive che tanto ci piace importare qui da noi. Forse voleva farmela conoscere da straniero, questa America. Forse, se fossi nato là, avrei odiato tutto e desiderato di venire in Europa, come spesso succede a qualche statunitense acculturato. Quindi, buon Dio, forse va bene così.

Non ho mai capito se il football fosse una naturale conseguenza, se fosse il punto di destinazione verso il quale tutti questi eventi e sentimenti si erano mossi, o se fosse semplicemente una cosa completamente slegata dal mio piccolo modo di pensare americano e capitata lì per caso, per offrirmi un’alternativa, per darmi qualcosa di nuovo rispetto a quella fuffa italica domenicale che crescendo diventava sempre meno sopportabile. Ciò non mi impedì di tifare per la Juventus con tutte le mie forze, in fondo da buon bambino italiano il primo pallone che vidi fu quello rotondo. Quel pallone, nel frattempo ammalatosi, l’avrei calciato via (forse per sempre, chissà) molti anni dopo, quando Lucky Luciano decise di portarsi via la mia anima innocente (nessuno ha portato via la tua, cretino, te la sei solo venduta) di fanciullo Platini-dipendente, facendomi sentire irrimediabilmente tradito ed imbrogliato.

Vidi qualcosa su Italia 1 quando ancora andavo alle elementari, non ne capii molto e la visione non mi divertì un granchè: ricordai per anni di avere visto delle persone scabinate darsi mazzate qua e là, di aver visto delle squadre che si chiamavano Denver Broncos e New York Giants e di aver persino tifato per i primi, solamente perché il telecronista (Guidone Bagatta, se la memoria non mi tradisce) sosteneva fossero sfavoriti rispetto agli altri.

Era stato gettato un sassolino che anni più tardi avrebbe fatto un’onda incontenibile. Non lo sapevo, ma era destino che andasse così.

L’avventura proseguì anni dopo, quando i miei intraprendenti nonni decisero di fare i pionieri installando Tele+ nella loro abitazione. Mi intrufolai in casa loro durante qualche freddo pomeriggio di gennaio, facevano delle interessanti repliche di partite di uno sport che avevo ritrovato dopo una lunga pausa, riuscendo a rivedere qualche highlight procurato da amici, che mi aveva fatto conoscere Dan Marino, Brett Favre ed i Los Angeles Raiders, che apprezzai per l’aggressività del logo, nonché per la presenza del loro berrettino sulla testa di tutti i rappers che ascoltavo da adolescente. Capitai lì a vedere Minnesota-Washington al Metrodome, uno splendido stadio chiuso con il terreno sintetico. Non avevo mai visto una cosa del genere. Era una gara di playoffs, senza domani, la chiamavano Wild Card, perché per ogni turno c’è un nome differente. Strafico, pensai. Vidi quel casco con l’indiano in azione, d’un tratto i Raiders e Dan Marino (che non smisi mai di apprezzare) erano un pallido ricordo, mi ricordai di tutti quei quaderni delle elementari, dove solo in seguito scoprì che oltre alle scritte Redskins c’erano raffigurati dei giocatori veri, che anni dopo riuscì ad individuare in Joe Thiesmann e John Riggins. I Redskins erano tradizionalmente grandi nel football. L’amore per loro non mi avrebbe mai più abbandonato.

Mi apprestavo a diventare un altro figlio di un football minore, pensando di essere sostanzialmente da solo e confinato nel seguire con passione non solo i Redskins, ma ogni singolo fotogramma che mi veniva proposto. Quale fosse la squadra non mi interessava un granchè.

Altro che giocare tutti la domenica, tutti con lo stesso clima: ogni città aveva le sue caratteristiche atmosferiche, capitò di vedere la neve (!) a Dallas e di gustarsi una partita di dicembre nel sole della generosa Florida, di veder soffrire omoni giganteschi al cospetto della siberiana Green Bay, di capire quanto furbi erano stati a Minneapolis, costruendo uno stadio coperto e riscaldato mentre fuori c’erano trentamila gradi sotto zero. Le decorazioni delle aree di meta, i loghi, i caschi, le uniformi…mi piacevano tutte.

Il fattore campo, ah, il fattore campo: a Green Bay non si passa perché fa freddissimo, a Chicago c’è lo stadio con le colonne ed il capitello, e quando tira il vento sono cavoli amari per tutti, a Buffalo nessuno ha il coraggio di uscire di casa per il gelo proibitivo ma a vedere i Bills ci vanno sempre tutti, piccole leggende, ma grandi differenze con quelle che decisi essere le checche dello sport italiota, sempre pronte ad una scusa per la sconfitta ed a ritirare l’esoso stipendio in egual misura, con la lieve differenza che commozioni celebrali ed ossa rotte non venivano da loro rischiate ad ogni singola azione. Niente stadi mezzi vuoti. In America lo stadio era sempre pieno. Quando ebbi la fortuna di andare a New York e vedere Jets-Raiders, i padroni di casa erano a secco di vittorie e metà stagione era ormai archiviata: entrammo solamente per concessione dei bagarini, perché lo stadio era esaurito dal venerdì precedente. In analoga situazione, in Italia, la sede della squadra sarebbe stata brutalmente vandalizzata. Questi, invece, erano fuori dallo stadio che tailgateggiavano con gli avversari. Diedi un cinque ad un tizio travestito Darth Vader, che se sbatteva di chi fossi e per chi tifassi. Era lì per dare cinque a chiunque passasse di là. Two different worlds.

Il mio orologio interno cambiò: le partite non erano più alle 15:00 della domenica, bensì un po’ alle 19.00 (italiane), ed un po’ alle 22.00. 1 pm e 4:15 pm (check local listings) diventò presto il mio pane quotidiano, man mano che i mezzi per vedere questo spettacolo crescevano (Tele+ arrivò anche a casa mia, e beccavo uno straordinariamente pulito segnale della Afn, tv e radio della Caserma Ederle) culminando al lunedì con il famoso Monday Night Football, sempre preceduto (ora non più, sigh) da una grafica computerizzata che sollevava i caschi delle protagoniste ai lati dello schermo televisivo, per poi farli cozzare iniziando la trasmissione vera e propria.

Andavo a letto con le cuffie e la radio accesa, se il segnale televisivo non andava. Ero in collegamento diretto con l’America ed ero la persona più felice del mondo. Quando arrivava il Super Bowl un caro amico veniva a casa mia, ci sparavamo la partita, dormivamo un paio d’ore sul divano e alle 7 del mattino eravamo già alla fermata del bus per andare a scuola. Ero stanco, distrutto, semi-incosciente già nel primo pomeriggio successivo. Ma lo spettacolo che avevo visto, nonostante vedesse spesso impegnati gli “odiati” Cowboys, mi aveva lasciato estasiato. Dentro di me non sentivo nessun odio e non riuscivo ad impormi di sentirlo. Se Dallas era più forte di Washington, in un determinato anno, non era certo perché comprava le partite.

Oggi sono ancora pieno di quella stessa passione, con la differenza che la posso seguire con maggiore facilità. Internet, Sky, tra poco forse Nasn, rappresentano il piccolo paradiso terrestre che è andato definitivamente a sostituire quel mondo che rifiuto, quello delle dirette del campionato di calcio di mezzo mondo, quello del pallone che ne combina di tutti i colori ma continua ad incollare alla tv milioni di persone, quello dei teppisti che comandano il governo ed impauriscono la polizia, quello dei motorini che volano giù dalle gradinate.

Ciliegina sulla torta, da tre anni ho scoperto che della mia malattia per fortuna soffre molta più gente di quello che pensavo, e d’un tratto mi sono ritrovato in mezzo a delle persone che non riesco a smettere di aver voglia di vedere. Tutti a conoscenza della maggior parte delle informazioni disponibili sulla loro disciplina, ognuno con la sua squadra e la sua rivalità non violenta, ognuno con il suo idolo d’infanzia e la sua motivazione personale per tenere a questa o a quell’altra franchigia.

Tutti figli di un football minore, costretti a seguire da emarginati il proprio sport preferito con ogni mezzo, perdendo diottrie per la scarsa qualità delle immagini, cresciuti sacrificando qualche fine settimana e sentendosi ripetere "Ma sei un pistola, eh? Stai a casa a guardare che?!?""Ehm football...football americano...".

Se anche una sola delle sensazioni che trovate descritta qui dentro fa o ha fatto parte della vostra vita e pensavate di essere gli unici al mondo, sappiate che (non) da oggi potete contare su uno sfigato in più.

4 commenti:

aLesAN ha detto...

!Que viva el futbol americano!

:animarubata:

angyair ha detto...

Grande Dave!
Il football mi ha rubato l'anima! Ma non la rivoglio indietro!

azazel ha detto...

bella dave!!!!
Giorno dopo giorno gli appassionati aumenteranno sempre più e nel 2040 marceremo su matarrese (che ovviamente sarà ancora lì...)

Anonimo ha detto...

grandissimo articolo...mi ci ritrovo in ogni frase.