giovedì 18 giugno 2009

Kobe, Zen, e The Big Fish: ed è titolo numero quindici



"A big ol' monkey off my back". Ecco le parole con cui Kobe Bryant ha descritto il suo quarto titolo di carriera, sottolineando, con quella particolare espressione, di essere finalmente riuscito a vincere da solo, da leader assoluto dei suoi Los Angeles Lakers, senza dover condividere il proscenio con un'altra superstar di uguale grandezza. Quella monkey aveva piuttosto assunto le dimensioni di un gorilla, o meglio di un godzilla, o meglio ancora di un Shaq-zilla: era difatti dal quel giugno 2002, da quel tremendo sweep terminato con la classica miriade di carte, cartacce e cartine che gli americani chiamano confetti che ricopriva il la pavimentazione in legno dell'impianto dei New Jersey Nets, che Kobe Bryant, pur essendo già entrato tra i più vincenti di sempre, aveva una missione chiara da completare nella sua vita di giocatore, a qualsiasi costo.


Tutti gli avevano detto che sì, era grande, ma senza Shaquille O'Neal non avrebbe vinto, fatto poi avvalorato dal titolo poi ottenuto dal medesimo Shaq al suo primo anno lontano dai Lakers, e dalla continua ricerca di un trofeo che aveva oramai divorato il fegato di Kobe, passata dalla sopportazione dell'umiliante sconfitta in finale contro Detroit dei Lakers di Gary Payton e Karl Malone, e dall'altrettanto deprimente gara 6 dello scorso anno a Boston, nella quale L.A. fu seppellita sotto 131 punti dei Celtics versione titolo numero diciassette. Shaq vinceva a Miami assieme al suo nuovo amico, Dwyane Wade. Kobe non aveva più vinto niente, se non qualche sfida diretta con il nemico (o amicone? mah...) nelle classiche sfide di Natale di qualche tempo fa.

Dalla scorsa domenica non è più così, Bryant può entrare finalmente di diritto, ma secondo il nostro parere vi era già stato inserito in precedenza, tra le più grandi leggende Nba di sempre, perchè quel fuoco negli occhi, quella fame di vittoria, quell'ossessione che l'ha fatto lavorare in palestra più di chiunque altro, dando l'esempio lui per primo ai compagni che gli hanno fatto da (ottimo) contorno in questo viaggio, erano le stesse peculiarità mostrate da Sua Maestà, Michael Jordan, giocatore che mai come quest'anno è riuscito ad emulare così da vicino.


Eccolo servito, quindi, l'epilogo di un campionato Nba che non sempre è all'altezza delle aspettative in alcune sue fasi dormienti della regular season, ma che quando cominciano i playoffs sa davvero essere di un livello che nessuno potrà mai riuscire a raggiungere. Alla fine, hanno vinto ancora loro. Ancora perchè da quel diciassette dei Celtics, i rivali Lakers non sono affatto distanti, ritornano a due lunghezze di distacco, e possono sentirsi ulteriormente motivati nel cercare di vincere ancora, mirando come obbiettivo proprio quella rivale più titolata di tutti gli altri nella Nba.


I Lakers, nonostante la loro fama di squadra perennemente in grado di provare a vincere il titolo, sono andati contro tutti i pronostici. Ci sono andati senza Shaq, sostituito da un bambinone troppo cresciuto per il quale Kobe aveva chiesto lo scambio (ricordate? avrebbe voluto Kidd al suo fianco, al posto di Andrew Bynum...), con il criticato Mitch Kupchak al posto di Jerry West, passando per la maturazione agonistica definitiva di Kobe in un momento che pareva senza direzioni precisa da intraprendere, prima di potersi definire una contender: prima di oggi c'era solo il Bryant Show (carina l'assonanza con Brian Shaw, che sull'argomento titoli in maglia Lakers può esprimere un'opinione o due...), ed un quartetto di giocatori impauriti per i potenziali errori che avrebbero potuto commettere dinanzi al leader del branco, il quale ogni volta che ne aveva l'occasione non mancava di dire due paroline pesanti al malcapitato di turno, e, peggio ancora, andava (lo fa ancora, non preoccupatevi...) direttamente a parlarne con coach Phil Jackson, innescando la classica serie di battutine mirate, tra il vedo-non vedo, a giocatori che avevano bisogno di essere motivati attraverso le indelicatezze pronunciate davanti ai media, tipiche dell'allenatore più grande di sempre. Sì, ora possiamo anche dirlo con certezza, Phil Jackson è il più grande coach della storia del gioco, ed ha fatto quello che nessuno era mai riuscito a fare, superando una leggenda che pareva intramontabile ed irraggiungibile, quella dei nove titoli di Red Auerbach. Jackson, tra Bulls e Lakers, è arrivato a quota dieci Larry O'Briens, un numero di peso ben diverso se inserito nel contesto del basket di oggi, dove c'è la free agency, dov'è stata introdotta la tassa di lusso, dove i giocatori assomigliano più a mercenari che non a cestisti professionisti (e professionali), impedendo di fatto la possibilità di mantenere un nucleo costante negli anni, contrariamente a quello che accadeva trenta o quarant'anni fa. Jackson ha saputo vincere con Jordan e Pippen, con Shaq e Kobe, con Kobe, Pau e Derek. Ed una delle immagini più belle delle Finals, è stata proprio l'espressione soddisfatta dell'head coach, assieme al suo cappellino giallo con la X viola stampata davanti (che sapeva un pò di Spike Lee e Malcolm X, eh...), a simboleggiare un'impresa che definire storica non rende a sufficienza l'idea.


E' stato il primo titolo, invece, per due giocatori che lo meritavano, Pau Gasol e Lamar Odom.

Il catalano, giunto a L.A. in pacchetto regalo da Memphis per quello che ancora oggi è un volere del tutto misterioso da parte del GM Chris Wallace (indirettamente questo trofeo è anche suo...), è la rappresentazione tecnica più pulita del basket moderno, un atleta che sa gestire la palla come una guardia nonostante l'altissima statura, che sa utilizzare il piede perno senza fare passi come fanno tutti gli americani, che una volta era chiamato GaSoft, perchè si faceva mettere sotto da tutti ed era l'equivalente difensivo di una mozzarella, che nella gara decisiva ha finalmente mostrato carattere, e, probabilmente fortificato nell'animo dal trofeo così vicino, è riuscito a difendere alla grande su Dwight "Superman" Howard.

Il newyorkese Lamar, invece, era arrivato qui solamente come merce di scambio per Shaq, tolto da una giovane e promettente Miami con gli stessi disagi provati da un gatto quando gli si fa cambiare abitazione, punzecchiato all'inverosimile da Jackson in tutti questi anniper la sua volontà altalenante, giocatore che accende poco e spegne tanto, ma che quando accende sa essere come nessuno è mai stato, un play che sa giocare quattro ruoli, con tiro da fuori (novità!), gioco in post e movenze in entrata agili ed armoniose.






Primo titolo non è, invece, quello di Derek Fisher, che in questa edizione giallo-viola si è preso le responsabilità un tempo di competenza di Robert Horry: via Big Shot Rob, dentro Big Shot Fish, che ha vinto il quarto anello pure lui da protagonista (eh sì, prima di andare a Golden State e Utah lui qui c'era già...), decidendo sostanzialmente da solo la decisiva gara 4, o pivotal game, come dicono dall'altra parte dell'oceano. La fotografia delle finali, dovessimo sceglierne una su tutte, è la sua espressione soddisfatta dopo la tripla decisiva per raggiungere un mortifero 3-1. Aveva lasciato Los Angeles da free agent, perchè si pensava che fosse terminata un'epoca e che la squadra andasse smembrata per poi essere ricostruita attorno a Kobe, lui era tornato chiedendo il permesso ai Jazz di essere lasciato libero, non per cercare altra gloria, ma perchè la figlioletta aveva bisogno, per una grave malattia poi fortunatamente risolta, di un'ospedale attrezzato come quello di Los Angeles, che gli garantisse le migliori cure possibili.

Una parola, anche di più, pare giusto spenderla anche per i perdenti, ovvero quegli Orlando Magic la cui presenza a queste Finals era del tutto impronosticabile, e che se non altro sono riusciti a vincere la prima gara di finale della loro storia, dopo aver terminato la prima esperienza con un cappotto al passivo per mano di Houston, nell'oramai lontano 1995. Ai ragazzi dell'apprezzabile Stan Van Gundy va il grandissimo merito di essere arrivati all'atto conclusivo percorrendo una strada più difficile rispetto a quella dei Lakers, arrivando a battere Boston in sette partite, pur senza Kevin Garnett, vincendo la partita decisiva fuori casa, e soprattutto mettendo la parola fine a tutte quelle maledette speculazioni sulla serie finale "voluta" dalla Nba, Kobe vs Lebron, con quest'ultimo ancora una volta troppo solo per riuscire nell'impresa, e troppo frustrato (ed immaturo) persino per riuscire a dare la mano agli avversari al termine di quella gara 6 nella quale Orlando aveva sgominato quella che pareva essere la corazzata incontrastabile della Eastern.
E' stata la finale che ha consacrato agli occhi del mondo un altro non americano, Hidayet Turkoglu, per tutti Brother Hedo, confermatosi giocatore dotato di ghiaccio al posto del sangue, capace di mettere un altissimo numero di tiri decisivi ed altamente infiammabile negli ultimi cinque minuti di qualsiasi partita, e che ora uscirà dal suo contratto in cerca di uno stipendio ancora più alto, che i Magic sono disposti a dargli nonostante il cap ristretto pur di mantenere intatto questo nucleo di giocatori.



Così così, invece, Dwight Howard e Rashard Lewis. "Superman" è entrato in Finale molto tardi, ed ha dimostrato di non essere ancora maturo a sufficienza per affrontare questo tipo di situazioni, cadendo nelle varie trappole difensive dei Lakers, incapponendosi nel tirare seppur triplicato ed ancora acerbo nella gestione tecnica dei falli; di fatto, quando la palla gli è arrivata con i tempi giusti e lui l'ha restituita fuori con altrettanta solerzia, il gioco perimetrale su cui sono fondati i Magic è tornato lo stesso che aveva affondato Celtics e Cavs. Per Lewis la serie è stata mentalmente in salita, nel senso che ha giocato bene solamente un paio di partite scomparendo letteralmente dalle altre, non lasciando traccia alcuna di quel grande giocatore che aveva disputato degli eccellenti playoffs, dimostrando se non altro che le pesanti cifre versate sul suo conto corrente non erano scritte a casaccio.
Benino, invece, Courtney Lee, che i playoffs li ha giocati complessivamente molto bene, così come aveva giocato altrettanto soddisfacentemente la regular season, che in finale ha sofferto tantissimo il fatto di dover marcare, a tratti, proprio Kobe, facendosi infilare da ogni angolo, ma che ha dimostrato una cosa molto importante: anche nella Nba di oggi c'è spazio per i giocatori preparati, quelli che vanno per quattro anni al college ed imparano i fondamentali, giocatori magari non stellari, ma concreti quello sì. Se le votazioni per il rookie dell'anno comprendessero anche i playoffs, non c'è dubbio che quel premio Lee l'avrebbe vinto a mani basse.

Ed ora, in un amen, ci ritroviamo davanti ad un'estate di pausa (che palle!), già pronti a vedere come andrà a finire il prossimo draft (o meglio, a vedere chi sarà scelto dopo Blake Griffin, che ha già scritto Clippers nel suo futuro...) e quali saranno i movimenti del futuro mercato, in attesa di capire se davvero Shaq andrà a casa di Lebron, se i Magic sapranno ripetersi, se la sete di vendetta di Garnett frutterà un'altra finale a Boston, e se Kobe & Phil decideranno di dare l'assalto ad un altro three peat.


Tornando invece un attimo alla vittoria appena ottenuta dai losangeleni, crediamo che sia proprio questo a rendere speciali gli sport americani: passare parte dei playoffs a sperare che una squadra perda per vederne vincere un'altra, (il sottoscritto, per intuibili motivi avrebbe preferito l'avanzata dei Rockets), ed una volta digerita la sconfitta comprendendo la superiorità di un team sull'altro, rendersi conto, vedendo festeggiare Zen, Kobe, Fish, Pau, Lamar e compagnia bella, di essere ugualmente felici, e che in fondo è bello riuscire a dare credito ad ogni impresa sportiva di si può essere testimoni, pur avendola seguita dal divano di casa, anche ad una squadra che risulti, in condizioni normali, antipatica. Non importa quanto si possa provare a detestare una squadra americana, o almeno per chi vi scrive funziona così, alla fine la conclusione è sempre la stessa, e si riesce a provare piacere per chiunque si veda recapitare, al triplo zero del cronometro della gara decisiva, maglietta e cappellino che testimoniano l'avvenuta vittoria del trofeo più importante.


Onore ai vincitori (ed ai vinti, anche, ci mancherebbe...)
Per il resto restate sintonizzati, in fondo non manca poi così tanto alla fine di ottobre.

1 commento:

azazel ha detto...

Ottimo Dave, su Kobe non mi dilungo, ma sono strafelice che finalmente abbia vinto questo (quarto, ma per come dici tu, per certi versi, primo) titolo NBA. Altro motivo di gaudio per me è stato vedere Odom finalmente tanto "bello" quanto vincente...è un giocatore che ho sempre adorato, anche quando lo criticavano un pò tutti e lo davano per finito...bene così, l' anno prossimo vincerà lebron ;-) :fischia: :c'èsempreunannoprossimo: