martedì 17 febbraio 2009

T-Mac, il cinese morbido, ed il Queensbridge

Per una volta, cercheremo di fare una sentita cortesia a tutti coloro che si accingeranno (e li ringraziamo sempre, comunque, di cuore) a leggere le righe che seguiranno, visto che trattano di Houston Rockets: eviteremo epiteti o proclami del tipo “I Razzi non decollano”, “Houston, abbiamo un problema”, e tutta quella spazzatura di titoli sempre uguali che sono stati ripetutamente utilizzati per introdurre un qualsiasi scritto che trattasse l’argomento.

Premesso questo, proveremo ad addentrarci nel mondo di una delle squadre più misteriose del recente passato (e presente) della Nba, una franchigia che non ha saputo vivere all’altezza del potenziale tecnico a disposizione per una lunga lista di motivazioni, che tenteremo di snocciolare, un management che ha cercato invano di costruire un team da titolo essendo erroneamente convinto di avere tra le mura di casa le due superstars del futuro, giocatori con evidenti difficoltà caratteriali coincidenti con l’aumento della temperatura delle partite, traducibile con l’assenza di cojones quando il basket, quello che conta davvero, comincia un nuovo torneo verso la fine di aprile.

Sembra ieri se si pensa alla conferenza stampa di presentazione di Tracy McGrady, i cui occhi perennemente addormentati parevano brillare di una luce diversa, la quale pareva tracciare davanti alla sua carriera una svolta più luminosa di quella vissuta prima indossando le canotte di Toronto ed Orlando, quando ancora il trascorrere inesorabile del tempo ed il conseguente inaridirsi delle giunture consentivano di sognare ad occhi aperti.
Per arrivare a lui, i Rockets avevano appena sacrificato “The Franchise”, Steve Francis, e del grande amico Cuttino Mobley, andati, per breve tempo, a tentare di variare le sorti dei Magic, nello stesso tempo in cui T-Mac andava a formare assieme a Yao Ming una delle coppie di superstars più devastanti della lega. In anni di dominio imposto da un certo caraibico in nero-argento e di affermazioni importanti per i Mavericks del pazzo Mark Cuban, il triangolo texano aggiungeva istantaneamente una terza protagonista per la lotta territoriale, facendo presupporre lunghi anni di entusiasmanti sfide playoffs in una qualsiasi di quelle sedi site nella terra dei pistoleri.

A conti fatti, cinque anni dopo, Tracy McGrady non è mai riuscito a prendere per mano i Rockets e portarli lontano, nonostante fosse secondo, per talento puro, ai soli Kobe e LeBron. Tanti infortuni, tante partite saltate, tanta mancanza di quella cattiveria che serve ad ogni campione per vincere un titolo. Per anni, a Houston, si è vissuta una frustrazione altissima, trasformata da una maledizione personale tramutata in collettiva: mai, come arci-noto, McGrady è riuscito a superare il primo turno di playoffs, con qualsiasi maglia. Mai Yao Ming, per ora sempre fedele a Houston, ha alzato il livello del proprio gioco per dare una mano nello spazzare via il presagio. E da tempo immemore, e qui dobbiamo tornare alla canotta formato pigiama dell’era Olajuwon-Drexler-Barkley, i Rockets sono riusciti a fare strada nei playoffs: era la finale della Western Conference, gara sei, ed una tripla allo scadere del venerabile ragionier Stockton spediva gli Utah Jazz alla loro prima resa di fronte a Sua Maestà Michael Jordan.

Ogni anno, da quando il combo T-Mac/Yao è assemblato, si parla di Rockets da titolo. Ogni anno, i Rockets vanno fuori al primo turno di playoffs.

In tutte le regular seasons, eccetto quella del 2005-2006 che vide la mancata partecipazione alla postseason soprattutto per gli infortuni sostenuti da Yao e T-Mac, la squadra ha vinto almeno 51 partite (con il ricordo della strepitosa cavalcata di 22 doppie vù consecutive nello scorso campionato) pur trovandosi invischiata nelle intricate gerarchie della potente Western Conference, dapprima con il basket assai poco spettacolare, ma difensivo ed efficace, di Jeff Van Gundy, poi con l’attacco a marce più alte di Rick Adelman, molto meno difensivo rispetto al sistema del suo predecessore.
Nei playoffs sono arrivate nell’ordine: 1) scoppola contro i rivali Mavericks (meno 30 in gara 7) dopo aver vanificato le vittorie in trasferta in gara 1 e 2; 2) suicidio contro gli Utah Jazz, domati nelle due partite di apertura al Toyota Center, con gara 7 persa in casa dopo essere stati sopra per 3-2; 3) disfatta contro i medesimi mormoni, 4-2 in scioltezza.

Minimo comune denominatore?

Tracy McGrady (meno) e Yao Ming (in maniera più evidente) giocavano con paura, con tremori alle ginocchia, senza la benché minima convinzione di portare la franchigia su vette incredibilmente alte. Se T-Mac ci provava di più, segnando valanghe di punti ma costringendosi a forzare molto più del dovuto, il cinese si scioglieva come neve al sole, facendosi bacchettare a rimbalzo da giocatori sulla carta meno dotati fisicamente di lui, ma evidentemente desiderosi il doppio di portare a casa dell’argenteria.

La mossa dell’estate, effettuata dal nuovo general manager Daryl Morey, è stata quella di portare in seno alla squadra un giocatore di enorme talento, gestibile dal solo Rick Adelman, il pezzo mancante per cercare di plasmare qualcosa di molto simile ai Big Three in verde del diciassettesimo titolo. Ron Artest è arrivato come una bomba ad orologeria, aggiungendo contemporaneamente uno dei primi cinque difensori della Nba ed un giocatore con 20 punti nelle falangi, ma pur sempre con quell’onta del Palace Of Auburn Hills tatuata sulla fedina per l’eternità.

Numericamente non è una cattiva stagione quella che la franchigia texana sta portando avanti, alla pausa All-Stars il bilancio racconta di 31 vittorie e 20 sconfitte, non male per un Ovest che viaggia perennemente a ritmi dove i piazzamenti per i playoffs possono cambiare di giorno in giorno, tuttavia non è quello il record che l’organizzazione si attendeva di ottenere arrivata a questo punto del cammino, quando qualche intuizione su chi possa essere la squadra da battere comincia a prendere forma. Pensiamo per un istante ai Lakers di Kobe e Pau, squadra attrezzata per tornare in finale e vendicarsi di Kevin Garnett e soci, pensiamo agli Spurs, che negli anni dispari sembrano provenire da un’altra dimensione cestistica, pensiamo infine ai LeBron Cavaliers, forse giunti alla maturità necessaria per andare fino in fondo.

Lasciando da parte i numeri ed osservando l’atteggiamento del gruppo, i Rockets non ricordano nemmeno da lontano una sola di queste squadre.

Anzi, lentamente la situazione sta implodendo: Artest, roccia di provenienza Queensbridge che mai in vita le ha mandate a dire, ha puntato il dito contro la svogliata difesa di McGrady, che nel presente campionato, tra l’altro, sta subendo un abbassamento letale della media punti; Rafer Alston, playmaker da streetball che ha fatto passi da gigante nelle ultime due stagioni, ha puntato il dito contro diversi compagni, rei di aver difeso con approssimazione ed attaccato con egoismo (altra frecciatina per Sleepy Eyes) accumulando un numero riprovevole di sconfitte contro le varie Memphis del presente campionato; Yao Ming, che stupido non è, ha fatto sapere tra le righe che se entro un termine ragionevole non accadrà nulla che possa far intravedere un Larry O’Brien Trophy, allo scadere del suo contratto (sì, indovinato, il mitico 2010) si accomoderà altrove.

E dato che di 2010 si parla, e visto che siamo in pieno clima di trading deadline, le ipotesi che infiammano il web sono davvero tante, anche per quei Rockets che dai rumors non erano mai stati sfiorati. In tale anno astrale, difatti, scade anche il pesante accordo di T-Mac, che da campione di talento assoluto rischia di passare a stella del passato dal contratto scaricabile nell’anno dei pesci grossi della free agency, fattore che in piazze mezze disgraziate (chi ha detto New York?) fa davvero tanta gola, considerato che chi più svuota, più cap può intasare per assicurarsi i servigi di un LeBron piuttosto che di un Dwyane Wade, ammesso e non concesso che tali signori intendano muovere il prezioso deretano dal luogo che esso attualmente occupa.

E per quanto incredibile sembri, il momento di cedere McGrady (più probabile in estate che non ora) sembra davvero arrivato, a giudicare dal suo atteggiamento egoistico (si è più volte rifiutato di stare fuori a lungo per curare i suoi infortuni, evidentemente danneggiando la squadra) e da figure come quella rimediata a Milwaukee, nell’ennesima partita persa dai Rockets contro una squadra nettamente inferiore come talento, dove il T-Mac ha sbagliato un appoggio a canestro che ha suscitato ilarità persino nei pollai, terminando con un tabellino riportante solamente 3 punti, scucendogli di dosso forse definitivamente l’etichetta di All-Star.

A tali condizioni, parlare di titolo e di finale sembra davvero fuori luogo.

Altra mossa di cui si parla insistentemente potrebbe essere l’ammissione del fallimento della mossa Artest, altro elemento con accordo in scadenza passibile di interesse da parte di molte squadre, movimento che potrebbe dire la verità sui problemi di spogliatoio attraversati dal gruppo. Potrebbe essere il passo giusto quella di togliere la mela guasta per tentare di ricreare l’armonia che troneggiava un anno fa? Ovvio, la risposta è difficile darla, non sapendo chi potrebbe arrivare in cambio.

Il problema è che nel mondo di oggi non si può più costruire, bisogna vincere subito ed a qualsiasi costo. Arrivare in alto tramite progressi pazienti e programmati non è più concesso.
Allenatori e general managers lavorano con tonnellate di pressione addosso, e se l’obbiettivo non viene centrato subito, non ci si pensa un attimo a distruggere il castello di carte, basti pensare all’esagerato numero di coaches soppressi negli ultimi tre anni, fattore che può dare una svolta ad una franchigia, ma che non garantisce una benché minima continuità progettuale di strategie e tatticismi.

I Rockets sono ad un bivio pericoloso. E’ chiaro che la cosiddetta finestra d’opportunità per vincere il titolo si sta chiudendo, le condizioni fisiche di McGrady non miglioreranno, così come non diventerà un leader dal giorno alla notte. Artest potrebbe mettersi in testa di condurre da solo la squadra per fare strada ai playoffs (magari riuscendovi, ne sarebbe capace), con il rischio che al minimo segno di instabilità si perda in una delle sue violente sceneggiate.
Yao, le cui doti di morbidità (di carattere, non di tiro) sotto canestro hanno indotto all’acquisto di numerose guardie del corpo (l’indispensabile Luis Scola su tutti, con menzione più che onorevole per il piccolo ma tosto Carl Landry) per cercare di incattivirne l’indole, al momento senza riuscirvi, è un centro di qualità tecniche e statura così rare che sembra improponibile pensare di privarsene.

Un bel test per le lunghe notti insonni di Morey. Che nonostante l’intraprendenza e la bravura dimostrata nel gestire la parte manageriale della franchigia, non ha risolto nemmeno quest’anno l’enigma di quale possa mai essere il giocatore ideale per il salto di qualità di Rockets tanto inconcludenti quanto ribollenti di talento all’interno del loro organico.


Un ragazzo prodigio dalla Mount Zion, il cinese più forte di ogni epoca, ed un massiccio dei projects del Queensbridge, al momento hanno fallito la missione.

giovedì 5 febbraio 2009

Alla fine non è successo

"Non succede, ma se succede...” era stato il tema della viglia. Alla fine non è successo, e quindi resteremo tutti con il dubbio di cosa sarebbe successo se tutto questo non fosse successo...

I Pittsburgh Steelers hanno vinto il sesto Super Bowl della loro storia, primi nella storia del trofeo trasformando la città in Six-burgh e dando vita a grandi festeggiamenti in una città che fa' del football e degli Steelers una ragione di vita.

La favola dei Cardinals è invece finita male, d' altronde non tutte le favole possono finire bene altrimenti si perderebbe il senso di favola, e poi chi decide che doveva prevalere la favola dei Cardinals su quella degli Steelers?

Hanno vinto i gialloneri ed è stato giusto così. E' stato un Super Bowl a tratti noioso, pieno di flags, ma certamente avvincente, specie nei due finali di tempo e con un quarto quarto che passerà alla storia del grande ballo perchè ci ha regalato emozioni, grandi giocate, pathos fino alla fine, e, come capitò l'anno scorso, il sorpasso definitivo si è avuto a 35 secondi dalla fine.

E' stato il Super Bowl di Santonio Holmes, nominato MVP grazie ad una partita tutta sostanza ma soprattutto per la grande giocata finale: una danza sulle punte come solo i grandi ballerini classici sanno regalare.

E' stato il Super Bowl di James Harrison, Defensive Player dell'anno che ha enormemente contribuito al successo degli Steelers con una di quelle giocate, il ritorno su intercetto da 100 yards alla fine del primo tempo, che ti farebbero saltare sul divano a gridare a squarciagola se non fosse che sono le 2 di notte ed i tuoi vicini non gradirebbero affatto.

E' stato il Super Bowl di Ben Roethlisberger, che dopo una partita abbastanza anonima (non perché brutta ma perché priva di acuti), ha tirato fuori un ultimo drive da campionissimo, di quelli che rimangono nella storia, con perfetti lanci millimetrici ed una classe e una calma in mezzo alla tasca che hanno fatto rimangiare a molti (a tutti sarà difficile) le parole sul fatto che è un gradino sotto a coloro che vengono considerati i migliori Qbs odierni, che non è un passer efficace ed affidabile, che non è etc. etc. Ha vinto ancora lui, è al secondo anello a 27 anni, è stato determinante, le chiacchiere stanno a zero.

E' stato il Super Bowl di Kurt Warner, sogno americano per eccellenza, ritornato lì dove aveva lasciato il titolo per un calcio di Vinatieri all'ultimo secondo e che vede di nuovo sfuggirgli l'anello sul filo di lana dopo aver giocato benissimo, aver fatto segnare altri records e dato, forse, l'addio al footballnon nel modo che sperava ma nel modo che comunque lo farà rimanere sempre nel cuore degli appassionati.

E' stato il Super Bowl di Larry Fitzgerald, al momento sicuramente il miglior WR della lega, capace di abbattere ogni record di categoria possibile in questa post season, emerso in maniera sfavillante dopo un primo tempo anonimo ed autore di giocate vietate ai comuni mortali.

E' stato il Super Bowl di Tomlin, il più giovane coach di sempre ad alzare al cielo il Vince Lombardi Trophy, che in soli 2 anni ha saputo riempire al meglio le grandi scarpe lasciate in eredità da Cowher, rispettando ed anzi esaltando le peculiarità dello stile Steelers (difesa e durezza) ma dando un po' di effervescenza all'attacco lasciandone in pieno le chiavi al suo QB.

E' stato il Super Bowl dei fazzoletti gialli: le Terrible Towels sugli spalti, continuamente agitate dai numerosissimi tifosi Steelers, le numerose penalty flags lanciate dagli arbitri per numerose, anzi troppe, penalità che sono state chiamate (tutte giuste secondo chi scrive).

Non è stato il Super Bowl del running game, nonostante gli Steelers in campo..., con aggiornamento di tutti i record negativi in questo ambito sia a livello di squadra che di game.

E' stato il Super Bowl della RAI e del football finalmente in chiaro: dopo averci fatto tribolare per tutta la stagione, e ancor di più nei playoffs, la televisione di stato ci ha regalato una domenica notte da sogno per chi da tanto tempo aspettava come un miraggio che la Domenica Sportiva e le sue inutili chiacchiere chiudessero in anticipo per lasciare spazio al più grande evento sportivo dell'anno. Ora però non facciamo cazzate per l'anno prossimo!

E' stato il Super Bowl del Boss e del suo stupendo (certo dipende dai gusti) halftime show: quando si mettono a fare certe cose è inutile....gli americani sono imbattibili.

E' stato un gran bel Super Bowl.

L'unico difetto è che manca un anno al prossimo.