sabato 10 maggio 2008

Hard fouls, Crybabies ed Oklahoma City

Un paio d’anni fa scrissi un editoriale per Play.it, che aveva quale tema principale la differenza tra il basket di cui mi ero appassionato, quello dei primi anni ’90, e quello che mi stava pericolosamente allontanando da uno dei giochi più belli che l’uomo abbia mai inventato, ovvero la versione 2000 del prototipo ti salto il liceo perché sono il più fico del mondo ed occhio perché ho una magnum 45 in tasca. L’editoriale si concludeva con una considerazione positiva sul college basket, che perlomeno conservava intatto un po’ di fascino che avevo originariamente trovato pure nella Nba nonostante lo snobismo mi molte stelline in procinto di fare il gran salto, e con l’amara constatazione che di partite di regular season professionistiche non se ne poteva davvero più. Si giocava (e si gioca) per arrivare ultimi, per far vincere il rookie dell’anno al tuo giocatore facendolo tirare ad ogni azione, troppe squadre restavano inchiodate alla mediocrità senza uscirne.

Non restava altro che attendere i playoffs, capaci di dare un colpo di spugna al grigiore del campionato normale, ma soprattutto di accendere la spia dell’emozione.

Il basket di fine aprile si trasforma difatti in uno spettacolo stratosferico, ci sono guerre al meglio delle sette gare, punteggi bassi ma vicini, tiri dell’ultimo secondo, upsets, e tanto agonismo, altro che bulletti che si atteggiano contro il niente nei noiosi matinè che conosciamo fin troppo bene.
Nei playoffs c’è poco spazio per i giochetti ed ancora meno per i senza palle che hanno alta considerazione di sé solo per i troppi zeri che ricevono in conto corrente, non c’è pressione di dover far giocare quel giovanotto arrivato direttamente dalla high school (ovvio, dipende dall’impatto sulla lega di quel giovanotto, mica sono tutti Chosen Ones) perché una sola cosa conta, ed è vincere. Lo sanno i San Antonio Spurs, che tra le loro file non schierano lagnoni problematici, piuttosto selezionano accuratamente il loro personale, che oltre che saper giocare ai massimi livelli come squadra sa anche come rappresentarla al di fuori del rettangolo di gioco. Niente gangstas, niente farabutti, niente rogne. Si gioca una stagione intera con la stessa intensità, e l’obbiettivo è sempre quello: vittoria ad ogni costo.

Tuttavia per quanto vincenti e perfetti possano essere gli Spurs, anch’essi sono una noia mortale da vedere in stagione regolare, perché questa non offre particolari emozioni dal punto di vista cardiaco: qualche buona partita si è vista, d’accordo, la gara serale della domenica con i Lakers in bianco e qualche scontro al vertice con protagonista il facelift di Boston è stato tutt’altro da scartare, ma il livello generale è sceso, lo dissi due anni fa e lo ripeto adesso. Finchè ci sono squadre che giocano per riempire al massimo la boccia di palline da ping pong e lasciano quella cosa chiamata orgoglio chissà dove, qui non ci si salva, è una vera e propria condanna.

Per sfuggire al tedio c’è sempre e solo una soluzione: i fuochi pirotecnici dei playoffs. Lì si accendono e si rinnovano rivalità, lì ci si guarda storto come si deve, lì c’è davvero un fattore campo, perché 20.000 mormoni che per due ore e mezza si dimenticano di Cristo e ti urlano addosso di tutto possono davvero mettere in soggezione chiunque. Lì si va fuori dalle righe di tanto in tanto, il gioco è più fisico, più maschio direbbero dalle nostre parti, e nelle aree verniciate si fa davvero fatica ad entrare.

Quest’anno abbiamo avuto la fortuna di vedere l’ennesima serie dell’infinita saga tra Cleveland e Washington, lo spauracchio biancoverde procurato dai piccoli e sorprendenti Hawks, Tim Duncan acciuffare l’overtime con una tripla allo scadere e soprattutto abbiamo goduto della crescita di Deron Williams e Chris Paul, due youngsters appartenenti all’ultima generazione di cestisti, ma avanti di diverse miglia a livello mentale e tecnico rispetto ad essi. Il bello è che c’è ancora molto di cui compiacersi, perché lo show è appena cominciato: gli Hornets stanno proseguendo un cammino storico per la storia della franchigia ed hanno messo sotto i campioni in carica, i Lebron Cavaliers hanno incrociato la loro strada con i Big Three, Kobe ed i soldati di Detroit avanzano senza soste nelle rispettive Conferences a suon di difesa e canestri. Avanti così.

Comunque sia, al calo dello spettacolo della stagione regolare, i playoffs hanno sempre risposto in maniera a dir poco esaltante, tutte le ultime edizioni hanno riservato cose più che gradevoli ai nostri occhi con la sola esclusione della Finale 2007, già scontata prima della palla a due di gara 1.
In precedenza, giusto per citare qualche episodio sparso, avevamo visto una stupenda serie all’ultimo sangue tra Dallas e San Antonio, la fine dell’egemonia losanegelena per mano di Rasheed e compagni, l’inaspettato trionfo dei Miami Heat, ed un’importante rivalità nascente tra LeBron James e Gilbert Arenas, amici fuori dal campo ma eterni sfidanti al suo interno, capaci di scambiarsi quarantelli e tempi supplementari degni di una vera e propria finalissima. Lo stesso James aveva estasiato le platee, demolendo da solo una costante della recente postseason, i Detroit Pistons, portando i Cavs dove Daugherty e Price avevano trovato strada chiusa dalla mano di un 23 con la maglia rossa.

In questo territorio la posta è alta, ci si conquista la vera immortalità, che viene data dal numero di Larry O’Brien che una squadra riesce a levare al cielo. Gli animi si scaldano facilmente, subentra una competitività che solo il fatto di giocare per sopravvivere riesce ad infondere in un atleta, fattore che più di ogni altro tiene alto il livello del gioco. E poi diciamocelo onestamente, qualche scaramuccia, alla gente, piace vederla. Ovvio, bisogna conoscere qual è il limite da non oltrepassare, quindi non incitiamo in nessun modo azioni tipo la Royal Rumble del Palace of Auburn Hills, né spargimenti di sangue, diciamo solo che tra il basket soporifero e quello vero preferiamo nettamente il secondo.

David Stern, però, è indignato da parte di questo agonismo e non ha digerito le provocazioni di DeShawn Stevenson, le gesture gangsta di Paul Pierce, lo sguardo incendiario di Kevin Garnett verso Zaza Pachulia, nonché i numerosi flagrant fouls fischiati nel solo primo turno di playoffs.
Il commissioner non è affatto convinto che ciò sia gioviale per la sua lega, e persevera nel suo puritanesimo continuando a vestire i panni del giustiziere della notte (che abbia preso la stessa malattia di Roger Goodell, suo pari della Nfl?) dichiarando che non sarà permesso a tali nefandezze di inquinare l’immagine della Nba agli occhi del mondo. Vabbè, lasciamo stare il gesto di Pierce, perché l’America non ha ancora deciso se sia davvero un motto dei famigerati Blood, gang tra le più sanguinarie di Los Angeles e non solo, oppure se sia qualcos’altro il cui significato sia stato rimpiazzato all’ultimo momento per salvarsi in corner da una potenziale gaffe di Double P, prendiamo però in considerazione il resto.

Andiamo allora a vedere che immagine ha questo basket americano agli occhi del mondo. Ne consegue che: A) gli Stati Uniti regalano la massima espressione di questo gioco, ma non certo nella regular season; B) la differenza tra Usa e Resto del Mondo è molto più sottile di quella di vent’anni fa; C) alcuni giocatori europei che sono nella Nba fanno molta differenza; D) in America nessuno ricorda più che cosa sia la tattica, cosa rappresenti un fondamentale, perché tanto questi sono tutti atleti che zompano e quando schiacciano non li ferma nessuno; E) i giovani che scippano il college arrivano tra i pro completamente impreparati (per un Kobe e per un LeBron ricordatevi che esiste sempre un Kwame Brown od un Martell Webster) e….last but not least F) la nazionale Usa, l’ex Dream Team, agli occhi del mondo che cita Stern è una ridicola macchina messa in moto da un’eccessiva autostima.

Che male c’è, quindi, se un Garnett inferocito difende la sua area di casa sua da uno che non è americano (e già qui gli girano i cosiddetti) e perdipiù non è del suo colore (qui stavolta girano in maniera vorticosa)? Stern ha timore di ripercussioni da strada sull’asse Boston-Tbilisi? Biggie contro Tupac? Per piacere….

E poi, cosa c’è di scandaloso se la superstar della lega, LBJ, viene assediata da falli terminali? Non è il prezzo che ha dovuto pagare anche chi era stato al centro del palco prima di lui? Nessuno ricorda le Jordan Rules? I Pistons che se ne andavano senza dare la mano sono forse uno spettacolo peggiore dei Miami Heat che mollano i buoi dopo 10 partite e compilano un record scandaloso (tanto il check lo ritirano comunque) nemmeno due anni dopo la conquista del loro primo titolo?

Abbiamo citato LeBron James. Perchè David Stern non si preoccupa con maggiore attenzione del tipo di messaggio che il suo giocatore-immagine manda al mondo che guarda, piuttosto che di quel testosterone che salva ogni anno la sua lega quando la temperatura sale?

James è uno di quei giocatori che nascono una volta ogni cinquant’anni, è l’unico rappresentante dell’era moderna che possa rischiare di vantare una tripla doppia di media, uno che si è tecnicamente migliorato negli anni e che ha saputo incidere sui destini di una franchigia in età tenerissima, talmente baciato dal talento da ricevere anzitempo un testimone che molti suoi predecessori non avevano saputo portare nella strada tra l‘era moderna ed il primo ritiro dell’icona della Nba, Michael Jordan. Un predestinato, uno che alle parole (dei media) ha fatto seguire molti fatti, e si è messo a dominare la lega con stordente facilità. Per questo, bisogna solamente levarsi il cappello davanti a lui. Purtroppo, il salto tra il chapeau e l’autentica venerazione è troppo corto, e l’hanno già compiuto troppe persone, con la Nba a fare da capofila.
Un tempo ragazzo di modi gentili ed educati, molto bravo nella gestione di tutta quella cascata mediatica dalla quale si è trovato investito, LeBron oggi è l’esempio della superstar viziata, quella che ha tutto e vuole ancora di più. Peggio del resto, vuole tutti ai suoi ordini.
I manifesti di Cleveland lo immortalano riportando le scritte “siete tutti testimoni”, lui soffia il talco in aria dando segni di onnipotenza, lui entra in campo mimando quella fastidiosa scenetta dove si fotografa a vicenda con Damon Jones (uno che è arrivato tardi quando distribuivano i cervelli) lui è e si ritiene una divinità perché tutto quello che tocca produce grano.

Ma cosa succede quando non tutti sono assoggettati alle sue volontà? Piange perché lo chiamano (ingiustamente, per carità) overrated, se la prende con DeShawn Stevenson, essere inferiore che ha osato parlare contro di lui, perché gli rivolge il gesto del tagliagole, e gli toglie la fascetta dalla testa con un fallo terminale. Si lamenta perché Haywood ed il Verizon Center lo dipingono come un crybaby, epiteto che nessuno al mondo avrebbe mai rivolto ad un Jordan o ad un Magic. Forse perché quelli sapevano di essere grandi, ma lo erano in modo da essere rispettati da tutti.

Stern non digerisce i gestacci ed i falli duri, ma non muove un muscolo se una serie di playoffs del suo campionato viene pateticamente (mossa pubblicitaria ad hoc – i soliti italiani - ndr) trasformata in una guerra tra rappers, uno dei quali, Jay-Z, detiene una quota dei futuri Brooklin Nets. L’altro, Souljah Boy, ha solo avuto la fortuna di trovarsi invischiato in tutto ciò, perché il brusio che si è alzato gli renderà tanti (immeritati) dollari.
L’egemonia di King James è così forte che qualche arbitro per lui (e non solo) ha inventato il quarto tempo, ed Nba Tv, nell’intervallo di gara 1 tra New Orleans e San Antonio, riportava insistentemente che i Cavs avevano vinto la serie per 5-2, facendo persino miglior figura di qualche quotidiano nostrano, che sul proprio sito era riuscito persino a pubblicare la notizia di un fantomatico 3-2 a favore di Washington con tanto di articolo a corredo.

Stern vuole una Nba dalla faccia pulita, però permette a gente come Bruce Bowen di giocare ancora, e rischia di indispettirsi per gesti come quelli di Chris Paul, che dal Bowen era stato debitamente scalciato da tergo in regular season, si inventa una finta da playground a risultato acquisito nell’appena citata gara 1 e ridicolizza il (buon) Bruce dicendogli anche due paroline in faccia. Stern vuole una Nba fresh and clean, che dia messaggi positivi al mondo. E che possibilmente, pensiamo noi, sia pure rammollita.

Stern ha altri problemi da risolvere, sicuramente di maggiore precedenza rispetto agli hard fouls: il trasferimento degli storici Seattle Sonics ad Oklahoma City ha alzato un vero e proprio vespaio di polemiche, ed una città intera è insorta in quanto tradita da un proprietario che aveva acquistato la squadra nel 2006 promettendo di compiere ogni singola azione che sarebbe servita a rinnovare la Key Arena. Il risultato è stata una causa legale promossa dalla città contro la proprietà della franchigia, e Stern ha fatto la figura di quello che preferisce garantire maggiori entrate piuttosto che proteggere una squadra che ha fatto da punto di riferimento nel nordovest della Nba.

Sarebbe questa l’immagine pulita? Quella che se ne fotte di quarant'anni nella Rainy City e trasloca nell'Oklahoma due anni prima della scadenza dell’accordo per l’affitto della Key Arena per chiari interessi economici?

Non ci sorprendiamo più di tanto, perché questa è la stessa organizzazione che ha portato gli Hornets a New Orleans perché a Charlotte il basket pro non se lo filavano troppo, per poi appostarvi i neonati Bobcats aggiungendo altri 15 posti a roster per dei giocatori che nella massima espressione del basket mondiale non dovrebbero nemmeno pensare di presenziare.
Perché non spostare i Clippers, piuttosto, che a Los Angeles non hanno e non avranno mai cittadinanza e tantomeno un derby che possa definirsi tale (ce ne fosse una di squadra fondata a L.A…), trovando un mortale che cambi loro nome ed uniforme visto che fanno schifo l’uno e anche l’altra? Perché non tenere Oklahoma City per i Bobcats? Perché non riportare gli Hornets a Charlotte visto che, a posteriori, non valeva la pena di spostarli?

Queste sono le cose che mettono in pericolo il legame dei fans con il gioco, non le headbands che volano per le terre assieme ai culetti delle superstars viziate.

Se troveremo risposte a tutte le domande che abbiamo sopra riportato ve lo faremo sapere di sicuro. Nel frattempo, visto che quest’anno l’offerta satellitare è molto ricca ed il divano di casa è sempre comodo, ci guardiamo un’altra partita di playoffs, dove gli atleti più forti del mondo giocano con il massimo agonismo possibile. E se ogni tanto ci scappa pure un flagrant foul, a noi nemmeno dispiace. I playoffs non sono roba per femminucce.

7 commenti:

azazel ha detto...

gran pezzo, rispecchia perfettamente il mio pensiero praticamente su tutto!! mi stavi quasi deludendo..quando eri partito con l' elogio a mr. o'rated :roll: ma poi ti sei ripreso.
se posso dire la mia...per ma lbj non è manco tutto sto gran fenomeno, sfrutta per il 90% delle cose che fa il suo fisico enorme. :paper:

Anonimo ha detto...

se posso dire la mia...per ma lbj non è manco tutto sto gran fenomeno, sfrutta per il 90% delle cose che fa il suo fisico enorme. :paper: ---> 4-2, 4-0, 4-2

azazel ha detto...

roll pera roll, cosa c' entra? c' avrà pure sempre battuto (peraltro 2 delle 3 volte con la squadra non al completo), vorrà dire che noi non abbiamo l' antidoto per lui, ma resta il fatto che il 90% delle cose che fa sono robe di strapotere fisico. kobe lo si può odiare quanto ci pare, ma è 200 volte un giocatore di basket più forte e lo era anche all' età di lebron. my opinion.

angyair ha detto...

Giusto quello che si dice sulla regular season: ma che si potrebbe fare per cambiare la situazione? secondo me ben poco......se poi pensiamo che anche nei PO in alcune partite si vede che la difesa è considerata quasi un di più...
2 piccole considerazioni: ma sbaglio o ora gli arbitri sono diventati più "personaggi" rispetto a prima? fattore campo che è diventato più decisivo rispetto a prima o smidollagine di alcune squadre che cambiano come il giorno con la notte fra casa e fuori?

Mistadave ha detto...

Mah, per la regular season non si può fare niente, le partite sono tante e se sei fuori gioco a metà stagione sei destinato a mollare. Finchè non mettono dei contratti ad incentivi non cambierà nulla, quando le stars firmano i contrattoni smettono di giocare...

@Aza: capisco l'astio verso Lbj, ma devi ammettere che per quanto montato sia è un giocatore speciale. Meno speciale di Agent Zero, intendiamoci...

aLesAN ha detto...

Dico solo che è un bellissimo pezzo, complimenti dave

aLesAN ha detto...

Ah, dimenticavo... a tratti mi pare che Fini si sia ispirato questo pezzo parlando al meeting di AN :figlidiundiominore: